Si, lo ammetto. È un mio limite: odio il clandestino.

Ma non la persona che è considerata tale. Odio la parola. Clandestino è un termine tecnico, che indica la posizione giuridica di chi, secondo la legge in vigore in quel momento, si trova in condizione irregolare.

Lo devo usare spesso nello scrivere le sentenze. Preferisco, invece, non usarlo mai nel linguaggio quotidiano. Una legge può cambiare lo status di una persona. Può farla diventare un clandestino da un giorno all’altro. Quella persona, però, rimane sempre la stessa di prima; con le sue virtù ed i suoi difetti. Non voglio minimamente entrare nel merito della politica dell’immigrazione italiana, le cui norme di riferimento applico quotidianamente, e che considero una questione complicatissima, se non inestricabile, sia dal punto di vista dei diritti umani che da quello degli equilibri economici mondiali.

Voglio semplicemente esprimere la mia ritrosia verso l’uso speculativo che si fa (soprattutto in questo periodo) di tale vocabolo.

Avendo una cultura giuridica aperta al diritto internazionale e ad una visione globale, trovo corretto (se non doveroso) parlare di “migranti economici”. Questa locuzione indica più correttamente, a mio avviso, il fenomeno in sé, lasciando da parte i pensieri negativi che evoca, invece, il termine clandestino.

Ho rilevato in altra occasione che l’uso delle parole è fonte di un condizionamento immediato. Allora contestavo la gentile definizione di “aiutino”, “spintarella”, “raccomandazione” utilizzati per indicare il terribile fenomeno della delinquenza concorsuale che incancrenisce interi settori dei concorsi pubblici italiani. Rubare un portafogli (che contiene il denaro guadagnato con il lavoro di un giorno, di una settimana, di un mese) è un grave crimine. Rubare un posto di lavoro (che è per tutta la vita) è un “aiutino”.

Se l’aiutino poi lo commette un papà (magari importante: un politico, un giudice, un “VIP”), è un dovuto gesto d’amore paterno. Se il portafoglio lo ruba un clandestino per far mangiare suo figlio, è sempre e solo un delitto aggravato.

Non che io giustifichi i furti o i clandestini. Tutt’altro. Non mi piace però che l’ipocrisia entri nel linguaggio comune.

Cosa mi ha portato a scrivere questo considerazioni?

Ieri passeggiavo per le vie di Firenze con mio figlio di due anni – che è cittadino italiano solo perché un nostro lontano avo non se la sentì, al contrario dei propri fratelli, di migrare negli Stati Uniti per cercare lavoro, come fecero migliaia di italiani dopo la prima grande guerra (scusate ma non me la sento, come fanno altri, di scriverla con l’iniziale maiuscola) – quando mi ha indicato con la sua manina una targa, apposta in via Ghibellina. C’è scritto:  “Clandestino, condannato a morte, nell’agosto 1944, negli ultimi giorni dell’occupazione nazifascista, Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica, qui dimorò fraternamente accolto”.

E allora, per favore, facciamo davvero attenzione, oltre che al significato, anche al valore che evocano le parole che usiamo.

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