“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. È il primo comma dell’articolo 45 della Costituzione. La citazione era d’obbligo per comprendere a pieno quel  connubio tra false cooperative e caporalato. Per usufruire di tale forma di reperimento della manodopera, oggi non troviamo più il caporale che, al mattino prima dell’alba, si reca nelle piazze per cercare manodopera giornaliera, per condurla nei campi o in cantieri edili abusivi (forma ancora esistente in alcune parti della penisola, in particolare in Puglia e Basilicata). Gli escamotage oggi si sono notevolmente affinati ed è nelle false cooperative, in maggioranza gestite da organizzazione legate alla camorra, che troviamo la sua rappresentazione più ampia.

“Lo scenario è questo: vi è una cooperativa con soci lavoratori che eseguono ufficialmente – spiega Umberto Franciosi, segretario generale Flai/Cgil di Modena, nella cui provincia, nella zona di Castelvetro, si trova uno dei più importanti distretti a livello europeo della lavorazione delle carni – lavori di facchinaggio nelle imprese di lavorazioni delle carni e dei salumi, ma nella realtà eseguono lavori del ciclo produttivo, esattamente come chi è diretto dipendente dell’azienda committente”.

Parliamo di cooperative, che occupano prevalentemente lavoratori stranieri, molti dei quali incapaci di leggere e scrivere l’italiano, e che, come tali, non hanno mai votato un bilancio sociale, come di norma spetterebbe ai cosiddetti soci lavoratori.

“Queste false cooperative – prosegue Franciosi – spesso hanno formalmente la loro sede legale presso l’abitazione del presidente, a volte un semplice prestanome extracomunitario, oppure, per dare una parvenza di legalità, presso un polveroso ufficio di pochi metri quadrati che funge da ripostiglio, in cui manca la strumentazione minima per qualsiasi impresa: fax, telefono e computer, oltre che il personale che vi lavori. Capita anche che la sede legale sia anche in luoghi remoti dell’Italia meridionale, presso la sede di qualche commercialista e che, la posta inviata a quegli indirizzi postali, ritorni indietro per compiuta giacenza. Gli unici recapiti di queste imprese fantasma, sono anonimi cellulari. Un esercito di false cooperative che gestiscono lavoratori stranieri grazie al prezioso lavoro di consulenti, o commercialisti, delle imprese committenti. Parliamo anche di imprese committenti che si costruiscono la propria cooperativa in casa, con presidente familiari dell’amministratore delegato dell’impresa committente, oppure lo stesso amministratore delegato della cooperativa che è lo stesso dell’azienda committente”.

Di qualche mese fa la polemica innescata dalla proposta della Cgil, in particolare le sigle Flai e la Fillea (sindacato degli edili nei cui cantieri l’irregolarità imperversa) sull’istituzione del reato di caporalato, a cui il Ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha risposto sostenendo che le sanzioni vigenti si presentano più che stringenti, prevedendo persino pene penali (dimenticando tuttavia che le stesse si prescrivono nell’irrisorio arco temporale di tre anni).

Quel “reato” che ha portato la Dpl a multare, lo scorso ottobre, per intermediazione ed interposizione di manodopera l’azienda del gruppo Marcegaglia, la Oskar Marcegaglia con sede a Mezzalora di Budrio (Bo), per un ammontare pari a 5.600 euro. La modalità era questa: i lavoratori, pur essendo assunti dalla Mediterranea Impianti, erano impiegati alle stesse macchine dei dipendenti della Oskar Marcegaglia, effettuando in pratica lo stesso lavoro e prendendo ordini dai dirigenti della Oskar. La multa è stata pagata immediatamente dall´azienda, ma – a dire dell’amministratore delegato Francesco Castagnoli – solo per evitare le sanzioni che scatterebbero in caso di mancato pagamento, avendo immediatamente commissionati ai legali di preparare il ricorso.

I ritmi di lavoro. Basterà tornare indietro di qualche decennio e ripercorrere le immagini che il genio di Charlie Chaplin ci ha offerto nel suo capolavoro “Tempi moderni”, per capire come l’organizzazione del lavoro in questo settore sia tornata ai livelli scanditi dal taylorismo/fordismo degli anni ‘30: ritmi veloci, orari prolungati, pause scarse.

“Le linee di produzione vanno sempre più forte – afferma Franciosi – ed i lavoratori vengono sempre adibiti alla stessa mansione causando le inevitabili malattie professionali caratteristiche del settore. Nelle linee del disosso dei prosciutti crudi, ogni operatore in media deve effettuare un’operazione ogni tre secondi con coltelli, in alcuni casi elettrici. Lavorazioni faticose che si possono protrarre anche per oltre 10 ore al giorno, effettuate in ambiente bagnato e freddo, con scarse pause, a velocità altissime e senza turnazioni. Elementi estremamente pericolosi, che causano, con la lunga esposizione, inevitabili danni all’apparato muscolo scheletrico”.

Non è difficile immaginare, dunque, la presenza di cospicui di infortuni, dove spesso risulta difficile provare la responsabilità dell’inidoneità degli strumenti di protezione.

“Un meccanismo – dice Franciosi – che genera una concorrenza spietata fra lavoratori, in particolare fra dipendenti dell’azienda committente e quelli dell’azienda appaltatrice che pur di lavorare monetizzano diritti e salute. Un sistema che può generare conflitti fra le etnie (prevalentemente marocchina, albanese, srilankese, ndr) in cui sono suddivisi nelle varie cooperative e con gli stessi italiani”.

La contraffazione alimentare. Sessanta miliardi di euro. È questo il drammatico valore, tanto nell’entità che nella sostanza, della contraffazione alimentare in Italia e all’estero. A denunciarlo è la Coldiretti, impegnata da anni in una mobilitazione ai valichi di frontiera ed ai porti a difesa del vero Made in Italy, minato da un fenomeno favorito dalla mancanza di chiarezza a livello nazionale e comunitario dove non è ancora obbligatorio indicare per tutti i prodotti la provenienza della materia prima in etichetta. Il risultato è – secondo quanto rileva l’analisi condotta dalla Coldiretti – che due prosciutti su tre venduti come italiani sono provenienti da maiali allevati all’estero.

Il problema vero è che in Italia non esistono maiali sufficienti perché la penisola sia autosufficiente e gli allevamenti, causa la concorrenza estera, sono costretti a chiudere (erano 1.300 nel 2001, meno di mille oggi). La Coldiretti tuttavia non abbandona la sua battaglia, a costo di bloccare ogni singolo camion colmo di cosce di maiale estere, poi spacciate per italiane. Come nel luglio scorso quando gli allevatori e i coltivatori si sono mobilitati al Brennero che ha portato ad intercettare un camion, controllato dalle forze di polizia anche alla presenza dell’ex ministro delle politiche agricole Giancarlo Galan. Il Tir era carico di 215 quintali di cosce di maiale olandesi destinate ad essere lavorate alla Suincom di Solignano di Castelvetro (società coinvolta nel 2002 in un duplice processo. Il primo per l’omicidio di Ismail Jauadi, per cui finirono in cella Gaspare Mattarella, il presidente, Biagio Grassia, il killer, e i complici Antonio Erbini e Mario De Luca. Il secondo per il reato di contraffazione alimentare, quello scoperto da Ismail e per il quale ricattava i soci dell’azienda, che secondo i pm Lucia Russo e Fausto Casari, portarono all’uccisione del socio lavoratore Ismail, oggi in attesa di archiviazione).

I controlli. Nel settore nodo ostico da sciogliere è quello relativo ai controlli. Per le cooperative è prevista una verifica amministrativo-contabile effettuata direttamente dalle confederazioni quali Confcooperative, Legacoop, Agci e Unci, nei confronti delle iscritte con una periodicità pari a due anni e con una copertura dell’almeno 95%.

Per quelle che non aderiscono alle centrali, invece, dal 2006 le competenze spettano al Ministero dello sviluppo economico (prima erano affidate al Ministero del lavoro che le esercitava attraverso i suoi ispettori), affidando spesso l’incarico, qualora siano disponibili, a funzionari della Dpl, con una copertura che rasenta, invece, il 20%.

La problematicità nasce, tuttavia, dalla circostanza per la quale, dopo un intervento ispettivo, le aziende aguzzano l’ingegno e si attrezzano per aggirare l’irregolarità.

“Il problema – afferma Eufranio Massi, direttore della Dpl di Modena – è costituito dalle imprese “mordi e fuggi”, di cui parla anche la legge 122 della finanziaria Tremonti, secondo la quale l’agenzia delle entrate e l’Inps hanno possibilità di fare accordi di iniziative comuni per lo scambio dei dati, finalizzato a colpire le imprese che nascono e muoiono velocemente. Nella cooperazione, tuttavia, questa è un’operazione difficile da attuare, perché dopo le sanzioni le cooperative si sciolgono, ne costituiscono altre e tutto torna alla situazione ante-controllo”.

Lo stesso Massi ammette che nel settore tante sono le coop che non applicano i contratti cooperativi siglati dalle confederazioni e tante sono le irregolarità come, solo per fare un esempio, la presenza in busta paga di somme a titolo di trasferta, in realtà mai effettuate, al solo fine di non pagare contributi (essendone la trasferta esente). È sulla base di ciò che, insieme ai rappresentanti delle associazioni di categoria, è stato istituito un Osservatorio della cooperazione presso ogni Dpl.

Qual è dunque l’intoppo? A dire di Massi, tutto potrebbe essere semplificato attraverso una diversa legislazione. «L’articolo 18 della legge Biagi – prosegue Massi – prevede, quando si effettuano degli accertamenti per somministrazione illecita, che vengano incrociati i dati per decine di lavoratori, in tal modo l’accertamento può durare anche dei mesi. Si potrebbe invece sostituire la sanzione prevista, moltiplicata per giornata e numero di lavoratori, con una sanzione rapportata a fasce di lavoratori, cosicché qualora si trovino lavoratori irregolarmente somministrati la sanzione scatti a prescindere da quante giornate lavorative sono state effettuate, secondo importi proporzionali al numero di lavoratori irregolari». Questa tuttavia è una scelta del Parlamento, «sono anni che lo segnalo – conclude Massi – ai vari ministri che si sono succeduti, ma sempre con scarsi risultati».

La cupola del bestiame. Ed è così che, nell’assoluta compiacenza delle aziende committenti, si è creato l’habitat ideale affinché la malavita organizzata, in particolare la camorra campana, costituisca cooperative sociali prendendo gli appalti di magazzini anche di marchi importanti. A confermarlo il Rapporto “Zoomafia 2010” della Lav (Lega Anti Vivisezione), secondo il quale sono numerose le operazioni malavitose che si sono intrecciate con lo sfruttamento illegale degli animali per un giro d’affari, nel corso del 2009, stimato intorno ai 3 miliardi di euro. Tra le attività che destano le maggiori preoccupazioni vi sono quelle legate al settore bovino, per cui si è iniziato a parlare di “cupola del bestiame”. Questo business registra ogni anno circa 400 milioni di euro di fatturato e in alcune zone ci si trova di fronte ad un vero e proprio mercato parallelo di carni e prodotti alimentari. Secondo la relazione del Ministro dell’interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, nel primo semestre 2009 (citata nel rapporto Zoomafia della Lav 2010) proprio in Emilia Romagna: “La sfera d’influenza affaristica dei gruppi camorristici, peraltro, potrebbe proiettarsi anche in altri rilevanti ambiti economici e, segnatamente, in quello del commercio di carni e del riciclaggio dei relativi proventi, attraverso una complessa rete di cooperative di servizio”.

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