Insieme a Jean Gabin e a Michel Simon è uno dei più grandi attori francesi di tutti i tempi”, parola di Gilles Jacob e Thierry Fremaux, presidente e delegato generale del Festival di Cannes. Con questa motivazione, il 17 maggio prossimo, la 64/ma edizione della manifestazione dedicherà una serata speciale alla “simpatica canaglia” del cinema d’Oltralpe, all’ex-pugile che ha continuato a boxare sul set, alla faccia da schiaffi più famosa del grande schermo, all’omologo europeo di Brando, all’anti-eroe sornione, dinoccolato, ma imprevedibile per antonomasia, alla strafottenza moltiplicata 24 volte al secondo, insomma, a Jean-Paul Belmondo.

Apparentemente antitetico all’altro volto della prima Nouvelle Vague – l’adolescente inquieto Jean-Pierre Léaud dei Quattrocento colpi (1957) di Truffaut –, il delinquente di mezza tacca che l’attore rende immortale nel godardiano Fino all’ultimo respiro (1960) ha, invece, la sua stessa vulnerabilità, nascondendo la tenerezza sotto l’impudenza e la spavalderia. Sta anche qui la dirompente modernità che l’attore francese, settantottenne tra qualche giorno, frequenta da sempre: celare, nell’aspetto e nella forma di un duro che si atteggia a Bogart e sogna di essere Cagney, la fragilità dell’uomo contemporaneo, l’incapacità di essere in linea con un ordine sociale che non si vuole comprendere.


Bébel, com’è maggiormente noto in Francia che da noi, ha interpretato un’ottantina di titoli in più di cinquant’anni di carriera fino a Un homme et son chien, remake del capolavoro Umberto D di Vittorio De Sica, per cui ha recitato ne La ciociara. Tra i sodalizi artistici più fecondi quello con il mai troppo osannato Jean-Pierre Melville (il magnifico terzetto di Leon Morin prete, Lo spione e Lo sciacallo), con Jacques Deray o Philippe De Broca, il cui L’uomo di Rio non ha nulla da invidiare alle schermaglie acrobatico-avventurose prodotte da Hollywood.

Non c’è dubbio che ai tempi dei divi Gabin e Simon, citati dai vertici del Festival di Cannes, Belmondo non sarebbe stato scritturato da nessun regista sano di mente: volto troppo irregolare, poco affidabile, eccessivamente tagliente, corrusco, quasi volgare. Anche nel decennio largo del suo massimo successo c’era chi la pensava così, preferendogli l’abbagliante bellezza e la perfezione dei lineamenti di Alain Delon, col quale l’industria ha cercato inutilmente di creare un antagonismo alla Coppi-Bartali. Due grandissimi. Ma così distanti da essere quasi inavvicinabili: pensate a come affrontano i rispettivi gangster in quel Borsalino troppo piccolo per entrambi.

Gli autori della Nouvelle Vague, tra i due, hanno sempre preferito il più brutto, che per Jean-Luc Godard ha interpretato anche La donna è donna e Il bandito delle ore undici, per Chabrol A doppia mandata e Trappola per un lupo, per Alain Resnais il tardo Stavinsky il grande truffatore. Tra le interpretazioni più straripanti e “contro” rimane quella de La mia droga si chiama Julie di François Truffaut che una volta scrisse: “L’Atalante termina con una scena in cui Jean Dasté e Dita Parlo si abbracciano su un letto. Quella notte devono senz’altro aver fatto un bambino. Questo bambino è il Belmondo di Fino all’ultimo respiro”.

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