di Pia Pera*

Nessun giardino è soltanto quello che appare, più che mai quando sia firmato da Gilles Clément. Paesaggista rivoluzionario con allievi a Versailles, chiamato a suo tempo da Renato Soru per la necropoli punica di Tuvixeddu, Clément parte da un «terzo paesaggio» di incolti abbandonati dove l’iniziativa torna alla Natura, dalle piante pioniere si approda, nel tempo, alla foresta.

Non si tratta, per Clément, di imporre un progetto, quanto di lasciar vivere il giardino planetario, fecondato da semi giunti da ogni parte del mondo, aperto alle incursioni delle vagabonde. Che sono prima di tutto, ma non solo, piante biennali come cardi, tassi barbassi e digitali, capaci di disseminarsi da sole creando presenze. Tocca a loro disegnare uno spazio in perenne trasformazione, mai fissato una volta per tutte dalla volontà dell’architetto.

Dal rifugio di La Valleé, dal Parco André-Citroën, dal Domaine du Rayol fino al Musée du quai Branly, emerge un’idea di ordine radicalmente altra, legata alla biologia, scienza nuova le cui implicazioni hanno tardato a toccare il modo di concepire il giardino, e che Clément reinventa ispirandosi al lavoro pionieristico di Henri Laborit. Non più geometrico, né macroscopico, l’ordine biologico ha a che fare con i fili sottili della rete della vita; non è statico e nemmeno imposto, bensì dinamico ed evolutivo.

Clément invita a lasciare il giardinaggio convenzionale, a rinunciare al controllo ossessivo, a fare il più possibile con la Natura, il meno possibile contro. È la fine per la Grande Madre Massaia Mediterranea incubo di Ippolito Pizzetti, quella che per «portarsi avanti col lavoro», insieme ai fiori appassiti taglia quelli non ancora sbocciati.

Clément, esploratore botanico, non dimentica mai che nulla sta fermo in natura, né le piante né gli spazi. In tale perenne cambiamento, quello che conta non è la forma data una volta per tutte, ma la capacità di esprimere una certa felicità di esistere, di stupirsi, nel nostro comune giardino planetario, di fronte a certi paesaggi involontari sgorgati dal selvatico. Basta ribaltare la prospettiva: non più irreggimentare le piante, ma assecondarle nei loro spostamenti,  non costringerle a convivenze impossibili, ma comprenderne le predilezioni sociali.

Partire da una botanica ragionata sul campo e non a tavolino. Perché il giardino in movimento è una questione, in primo luogo, di piante non costrette, ma sfuggite in gioiosa anarchia al controllo dell’uomo. Vere e proprie nomadi e ribelli, nate da semi capaci di viaggiare sulla pelliccia di animali, portate dal vento o dalle correnti: digitali in una radura dove hanno tagliato le querce, nasturzi in Nuova Zelanda. Ne hanno fatta di strada questi semi vaganti, a partire dalla prima edizione, nel 1991, di Jardin en Mouvement (ora appena pubblicato con il titolo Il giardino in movimento dall’editore Quodlibet di Macerata)

* Giornalista esperta di botanica e giardini

Saturno, Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2011

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