Sono accidentalmente finito sotto una gigantografia di Gheddafi, innalzata dai suoi fan proprio qui, a Knightsbridge, davanti alla pacchianissima ambasciata libica. Separati da un esiguo cordone di agenti, a qualche metro, ci sono gli oppositori del Colonnello, avvolti in bandiere tricolori e drappi con su stampato il volto del vecchio re. Tra i due gruppi volano urla e insulti, ma a parte le attempate signore con autista e cagnolino, nessuno si agita troppo: tutto è sotto controllo, e non saranno più d’un centinaio, i supporter del tiranno.

Che sia fervore spontaneo, il loro, o incitato da cospicui assegni, chi può dirlo? Ma visti da vicino non fanno granché paura, questi uomini barbuti in ciabatte e bandane verdi. Alcuni si convincono di farmi dare una ripassata a quel Libro Verde che pare fosse il Vangelo del regime, e che ora qualcuno si è preso la briga di ristampare in inglese; me ne regalano pure una copia. A farmi compagnia ci sono due compaesani, impiccioni anche loro: Stefano, avvocato, e Fabrizio, anestesista e bluesman. Armati di taccuino ci confondiamo con i giornalisti autorizzati, per incontrare i rappresentanti prima dell’una, poi dell’altra parte: una serie di foto-ricordo e strette di mano bipartisan, mentre i “colleghi” della grande stampa ci osservano giustamente perplessi.

Dunque, nel grande zoo che è Londra, dove ogni spicchio d’umanità è riprodotto in scala, c’è l’eco di una rivolta e anche il suo opposto. Se nei parchi pubblici si radunano, alla luce del sole, gruppi islamici fondamentalisti, nelle università i musulmani progressisti dibattono su quanto il governo inglese sia compromesso coi regimi. L’artista e ricercatrice italo-libica Adelita Husny-Bey pubblica le potenti testimonianze dei genitori intrappolati a Bengasi mentre, giorni fa, alcuni dissidenti hanno occupato – squattato, in gergo – una villa faraonica del figlio di Gheddafi, e il reazionario Evening Standard per poco non applaudiva.

E chi sono quei ricchissimi arabi che a Knightsbridge non scendono in strada, ma ci vivono? Sceicchi, eredi di passate monarchie in cerca di rivalsa, principessine mandate nelle migliori università, imprenditori, immobiliaristi. Un mondo spesso ermetico che fa shopping a Notting Hill indossando il burqa; che sfila in  Edgware Road con mastodontici Suv dalla tappezzeria griffata; e che guarda, forse, il Middle East dallo stesso finestrino oscurato con cui si isola dagli arabi più modesti, i muratori e i kebabbari di Lambeth, Southwark o Dalston.

Più di una volta mi è toccato constatare che i figli dell’alta borghesia, coloro che più si direbbero emancipati, non di rado superano, in conservatorismo, i “cugini poveri” rimasti a casa. E pur tra mille sfumature ideologiche, m’è parso sempre presente, tra i giovani egiziani tunisini e libici che qui abitano, un ossessivo richiamo nazionalistico. La madrepatria! Come se nella cacciata di quelle imbarazzanti dittature venisse prima l’onore del Paese da cui si è emigrati, più che la dignità dei suoi cittadini presenti e futuri.

Mi torna in mente il contrappasso che ho subito da parte di alcuni “compagni”, per aver criticato il Benigni patriottardo sanremese: ovvero, sentirmi rammentare – io che di bandiere non ne ho mai bruciate – l’importanza di tricolori-e-radici per resistere alla barbarie, seguendo proprio l’esempio degli insorti arabi.

Mutazioni
! E pensare che dieci anni fa tentavamo di esportare concetti come altermondialismo, moltitudini, nomadismo culturale. Oggi ci tocca pure prendere lezioni dai nostalgici di re Idris I.

di Paolo Mossetti, scrittore e curioso, nato a Napoli nel 1983, tra i fondatori dei gruppi attivisti Il Richiamo
e Through Europe. Per il momento vive a Londra.

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