Strano a dirsi oggi, ma c’è un glamour che, immune da ogni volgarità, si fa leggerezza e soffio. Appartiene a donne e uomini per cui la vita è gioco e schermaglia, confronto, a volte raggiro, invenzione, fraintendimento e amore, aleggia ancora tra le sagome in bianco e nero di Marlene Dietrich e Greta Garbo, Don Ameche, Wiliam Powell e Gary Grant, Claudette Colbert, Carole Lombard e tutti gli splendidi divi da cui ci allontaniamo progressivamente in termini di stile più che di decenni.

Un mood ben preciso che dalla screwball comedy (la commedia svitata iniziata, stando agli storici Bordwell e Thompson, con Ventesimo secolo di Hawks e Accadde una notte di Capra) arriva ai capolavori di Billy Wilder e, in parte, di Blake Edwards, un sentire cinematografico fatto di frivole allegrie e idee fulminanti, di colazioni e cocktail in terrazza, di donne – povere oppure ricche – sempre indipendenti e risolute, strani incontri, discorsi strampalati e sarabande assortite, casualità, elogi dell’adulterio, corse in macchina e arguti doppisensi. Chi non ha sognato di vivere anche solo un giorno della propria vita in un mondo orgoglioso di “essere svitato” e dove non è mai troppo tardi?

Pazze d’amore, bella rassegna attualmente in corso alla Casa del Cinema di Roma, mette insieme alcune pietre miliari della commedia sofisticata americana, fornendo una ghiotta occasione per chiunque, almeno una volta, ha desiderato fumare un sigaro con Clark Gable o bere un Martini con Katherine Hepburn. Dopo Arianna di Billy Wilder e La porta d’oro di Mitchell Leisen, stasera sarà la volta del capolavoro Angelo di Ernst Lubitsch. I prossimi tre martedì toccherà a La signora di mezzanotte di Mitchell Leisen (29 marzo), L’impareggiabile Godfrey di Gregory La Cava (19 aprile) e Lady Eva di Preston Sturges (26 aprile). Tutte le proiezioni sono in sala deluxe alle 20 e 30.

Più che un usuale ciclo di film a tema – tra L’impareggiabile Godfrey (1936) e Arianna (1957) passano più di vent’anni e altrettante evoluzioni nel genere… – Pazze d’amore è un bouquet assortito di splendidi fiori del macrogenere sofisticato, sei pellicole di raro fascino che toccano il punto più alto proprio nel film di stasera, Angelo di Ernst Lubitsch.

Per il grande regista tedesco, Marlene Dietrich è Maria, donna al centro di un triangolo i cui lati sono la lontananza del marito, un diplomatico inglese, l’avvenenza di un gentiluomo americano conosciuto a Parigi e il caso che li porterà a sedere tutti insieme in una delle cene più imbarazzanti della storia del cinema. Pochi dubbi sul fatto che nessuno avrebbe servito a tavola meglio dell’autore di Vogliamo vivere, inarrivabile maestro dell’allusione e magnifico cantore di un mondo fascinosamente malizioso.

Lubitsch fu cineasta tanto grande da sostanziare un particolare complesso di colpa persino in un genio come Billy Wilder che per lui scrisse le sceneggiature di L’ottava moglie di Barbablù e Ninotchka; alla domanda del regista di Jerry Maguire su chi l’avesse più influenzato nei decenni di una magnifica carriera, infatti, il grande Billy rispose: “Lubitsch. Quella scritta sulla parete è lì da molti anni: ‘Come l’avrebbe fatto Lubitsch?’ Mentre scrivevo una sceneggiatura o preparavo un film la guardavo sempre. Quale strada avrebbe scelto Lubitsch? Cosa avrebbe escogitato per far sembrare naturale quella certa cosa? L’unica influenza che ho subito è stata quella di Lubitsch” (Cameron Crowe, Conversazioni con Billy Wilder, Adelphi, 2002, p.191).

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