Il terremoto e lo tsunami che hanno colpito nei giorni scorsi il Giappone, portando con sé il rischio di contaminazione nucleare causato dal danneggiamento della nucleare di Fukushima Daiichi, pur lasciando un pesante bilancio di morti, ci hanno mostrato, sul piano dell’esperienza concreta, quello che le scienze psicosociali sostengono da tempo, e cioè che nelle catastrofi la gestione integrata dell’emergenza, con un sistema affidabile di allarme, infrastrutture adeguate, risposta politica forte e tempestiva, e la resistenza” psicosociale delle comunità possano essere strumenti di grande efficacia nella mitigazione del rischio, permettendo di salvare migliaia di vite umane.

Non possiamo non restare ammirati dinanzi alla grande capacità di “resistenza” mostrata dinanzi alle forze della natura da tutta la popolazione giapponese. Questo dovrebbe essere un pesante monito per noi italiani che viviamo ogni giorno su una terra di terremoti e di abusi edilizi, di inefficienza politica, affarismo, corruzione, brigantaggio economico, un imperativo categorico a cambiare rotta, a prendere esempio. Su un territorio come il nostro, dove scosse sismiche lievi, se paragonate al terremoto del Giappone, fanno crollare scuole e case degli studenti sulle teste di bambini e ragazzi, sgretolano vite, storia, cultura, nessuna parola è stata pronunciata dinanzi alla dimostrazione pratica, rimbalzata sugli schermi dei televisori di tutto il mondo, che davvero si può fare, che davvero si può realizzare la mitigazione del rischio con la costruzione di strutture e infrastrutture adeguate e un serio programma di potenziamento della resistenza psicosociale dell’intera comunità.

Alcuni si sono stupiti dell’apparente mancanza di soccorsi. Perché siamo abituati a “correre ai ripari” e non abbiamo alcuna idea di cosa possano essere l’analisi del rischio e la prevenzione, né riusciamo proprio a pensare che possano esistere comunità addestrate, che sanno quel che devono fare e lo fanno, per cercare di salvare la propria vita e la vita di quelli intorno a sé. Nessuna parola è stata pronunciata sulla scoperta che salvare vite umane è scienza, non fantascienza. Le uniche parole che siamo riusciti a trovare sono state per il nucleare. Per l’affare nucleare, per la precisione! Perché chi tira l’acqua al mulino del nucleare si è subito preoccupato che l’onda emotiva radioattiva andasse a rompere le uova nel paniere di chi dal nucleare già contava di intascare notevoli guadagni.

I giapponesi hanno imparato dagli errori del passato. E noi, che stiamo qui a discutere dell’opportunità di collocare in qualche punto ancora sconosciuto dell’amato, tremante suolo italico una o più centrali nucleari, che cosa abbiamo imparato dal Vajont, dall’Irpinia, da Sarno, da L’Aquila e da tutte le alte tragedie che hanno colpito l’Italia a causa della sua imbarazzante situazione geologica? Noi stiamo qui a parlare di costruire centrali nucleari, mentre abbiamo case di cartone che si sgretolano alla minima scossa di terremoto.

E allora parliamo di questo nucleare. Se davvero ancora c’è qualcuno che prende in considerazione in Italia questa opzione. Con quale presunzione possiamo pensare di essere in grado di realizzare, su un terreno ad elevato rischio sismico come il nostro, delle centrali nucleari sicure, quando non riusciamo nemmeno a realizzare delle scuole capaci di non franare sulle teste dei nostri figli con scosse sismiche ben più lievi di quelle cui il Giappone è abituato?

Nel caso del nucleare, si chiede agli esperti di effettuare una valutazione dei rischi oggettivi, in mancanza di una casistica storica sufficiente. Nel dibattito sul nucleare si svela in tutta la sua potenza quel che la psicologia della decisione ha mostrato negli ultimi anni mediante un gran numero di prove, cioè la difficoltà di ognuno di noi di gestire situazioni decisionali incerte o mal strutturate. E proprio l’ampia ricerca della psicologia della decisione ci dice che le persone, in situazioni di incertezza come questa, utilizzano:
– le informazioni che più facilmente comprendono;
– le informazioni che provengono da fonti che ritengono affidabili;
– le informazioni che percepiscono intuitivamente come corrette.

Ed ecco, allora, spiegata l’impossibilità nella quale oggi ci troviamo di prendere una decisione razionale e adeguata sul nucleare:
– le informazioni scientifiche fornite sul nucleare non sono facilmente comprensibili, sia per la complessità della materia, sia per la carenza di un’adeguata divulgazione scientifica;
– nessuna delle fonti di informazione, politica, economica, scientifica, è ritenuta affidabile;
– le informazioni che sono percepite intuitivamente come corrette, da sole non sono sufficienti per una valutazione abbastanza ampia dei rischi.

L’episodio del Giappone sposta l’ago della bilancia verso un rifiuto del nucleare, rappresentando un’esperienza negativa vivida, cui si associano connotati emotivi forti, cui ancorare la decisione. Soprattutto, sposta l’ago della bilancia a favore di una ancora maggiore diffidenza nei confronti delle fonti di informazione. Questa concentrazione sui rischi del nucleare, lascia però nell’ombra quella che a mio parere è la vera questione sottostante la scelta di essere a favore o contro l’energia nucleare e che non riguarda affatto, o non solo, la valutazione dei rischi, ma tocca una ben più profonda esigenza di ripensare il nostro modo di essere nel mondo.

Il rifiuto del nucleare non è una scelta dettata da paure ancestrali, che spesso vengono evocate quando si parla di nucleare, o da valutazioni razionali costi-benefici tra rischi e bisogni energetici, ma viene dall’esigenza di una nuova Weltanschauung, una nuova concezione del mondo, che non rinneghi il benessere e il progresso scientifico e tecnologico che questo benessere hanno reso possibile, ma che vada oltre, abbandonando un modello grandioso di sviluppo e cercando di realizzare un ben-essere che sia anche un essere-bene nel mondo.

Il Giappone ci pone dinanzi all’esigenza impellente di cambiare la nostra visione del mondo, di individuare nuovi concetti guida che sappiano esprimere l’intimo legame tra la nostra vita e la natura, sulla base dei quali poter attribuire nuovi valori alle vicende umane, così da poter finalmente dare un senso al nostro essere-nel-mondo, al nostro essere-nel-mondo con gli altri, che, come diceva Heidegger, è abitare. Abitare la Terra.

di Carmen Pernicola, psicologa clinica e di comunità

Articolo Precedente

Il Papa e il giorno dell’Ira

next
Articolo Successivo

Libia, Massimo Fini vs Mimmo Lombezzi
“Ingerenza militare”. “No, giusto intervenire”

next