Al contrario di quanto si sarebbe potuto immaginare dopo che i ribelli avevano inizialmente colto di sorpresa il colonnello Gheddafi, l’Europa e gli Stati Uniti hanno tardato sia a prendere una decisione, ma soprattutto a prenderne una comune in favore dell’intervento in Libia. Salta comunque agli occhi come i pilastri dell’Alleanza atlantica siano oggi diversamente allineati di quanto lo fossero prima della risoluzione Onu che autorizza di fatto l’intervento militare alleato contro Tripoli.

Da un lato Gran Bretagna e Francia, legate da un recente patto militare, che capovolgendo una storica diffidenza, hanno invocato per prime una no-fly zone (Cameron), e hanno chiesto ripetutamente un’azione militare diretta in favore degli insorti (Sarkozy). Al loro fianco gli Stati Uniti, a detta di molti, questa volta in veste più di trascinati che trascinatori.

La riluttanza di Obama nell’appoggiare la no-fly zone è il risultato di uno stallo creatosi all’interno del suo stesso governo, che vede il Ministro della Difesa Robert Gates – indipendente, ma come è noto molto vicino ai Republicani – collocato su posizioni opposte a quelle del Segretario di Stato Hillary Clinton. Solo solo pochi giorni fa, Clinton ha tra l’altro annunciato che, anche in caso di rielezione di Obama nel 2012, non lavorerà al suo fianco. Un modo per palesare il contrasto con la linea attendista del presidente, e con il suo entourage da lei giudicato in modo sferzante – stando ai ben informati – alla stregua di un gruppo di dilettanti in materia di politica estera.

Da ultimo arrivano Germania e Italia. La prima, con una cauta posizione di appoggio esterno tutto incentrato sulla strategia diplomatica di sanzioni e dissuasione (basti vedere l’intervista concessa alla Stampa dal Ministro della Difesa Guido Westerwelle). La seconda, che dopo varie piroette di Frattini e La Russa e immancabilmente B., unite a comprensibili timori, data la nostra vicinanza geografica e storica alla Libia, ha deciso nella serata di ieri di partecipare pienamente allo svolgersi delle azioni militari.

La sostanza è che nel giro di poche ore l’asse geopolitico che ha retto l’Europa per anni sembra sconvolto. Non più Parigi-Berlino cuore centro-europeo e pacifista da un lato, a fare da contraltare alle interventiste Washington-Londra dall’altro, come era accaduto emblematicamente ai tempi della guerra in Iraq.

Rimangono a questo punto aperte due domande. La prima, come si muoverà l’Alleanza così configurata rispetto alle crisi già iniziate e a venire, come Bahrein, Yemen, e poi chissà, Emirati o perfino Arabia Saudita. Saranno ancora Cameron e Sarkozy a guidare la linea interventista europea, lasciando Usa e Germania a rincorrere o perfino a equilibrare? E che posizione assumerà a quel punto la Lega araba, al momento schierata unitariamente contro Gheddafi?

La seconda riguarda specificamente il nostro Paese. Dove si allineerà Roma, d’ora in poi, verso Berlino o verso Londra, nel caso in cui dovesse di nuovo venirle a mancare Washington, il riferimento naturale dietro cui ama nascondersi per non schierarsi troppo nello scenario europeo? Quel che è certo per ora è che la nostra diplomazia è apparsa in questa occasione una volta di più spiazzata e marginale. Proprio noi, che per mille motivi dovremmo avere a cuore la Libia più di tutti gli altri.

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