Matteo Brigandì, membro laico del Csm

Matteo Brigandì fuori dal Csm”. Lo chiede una delibera della Commissione per la verifica dei titoli dei componenti di Palazzo Marescialli. Il consigliere è indagato per falso dalla Procura di Roma: avrebbe negato di essere amministratore di una società legata alla Lega, la Fingroup spa, al momento della nomina al Csm. E’ la seconda recentissima tegola giudiziaria che lo riguarda. Sempre nella Capitale Brigandì – eletto in quota leghista a luglio – è sotto inchiesta (abuso d’ufficio il reato ipotizzato) per aver visionato e poi passato al “Giornale” notizie su atti custoditi al Csm riguardanti un vecchio procedimento disciplinare – poi archiviato – a carico di Ilda Boccassini.

Atti che il quotidiano di Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti aveva poi “sparato” in prima pagina il 27 gennaio. Dando l’impressione di proseguire una “campagna” contro il magistrato – pochi giorni prima avevano riciclato la vecchia storia di suo figlio Antonio, coinvolto nel 1997 in un litigio scoppiato davanti a una discoteca – condotta assieme a “Panorama” e preceduta da un significativo vertice ad Arcore il 17 gennaio con la convocazione appunto oltre che di Sallusti e Giorgio Mulè (direttore del settimanale), anche di Mauro Crippa (capo dell’informazione Mediaset) e Alfonso Signorini (direttore di “Chi”). Brigandì si è sempre difeso – anche davanti ai magistrati – sostenendo di aver sì visionato un vecchio dossier sulla Boccassini, ma di non averne parlato con i giornalisti. “Sono un personaggio scomodo, perchè non ho debiti con nessuno e non sono ricattabile” è andato ripetendo in questi mesi.

Avrà forse fatto riferimento alle sue battaglie – piuttosto solitarie – condotte proprio al Csm: come quelle contro l’ex presidente del Brasile Lula e il pm di Vallettopoli (e oggi della P4) Henry John Woodcock. O a quella a favore della riforma della giustizia: “La magistratura ha invaso e sta invadendo il campo della politica e quindi è evidente che una qualsiasi riforma che voglia ricondurre il potere giudiziario nell’alveo costituzionale dà fastidio, l’idea di essere tutti intercettati è una lesione di un diritto che è quello della comunicazione tutelato dalla Costituzione ormai andato a pallino” ha sostenuto in una recentissima intervista al Tg1. O forse, ancora, quel suo dichiararsi “scomodo” sarà stato riferito ad altre dispute avute con i magistrati: nel 2003 venne anche arrestato, per poi essere assolto nel 2008 (ma dopo una condanna in primo grado), per truffa ai danni della Regione Piemonte, quando era assessore regionale. Su di lui pesano ora due condanne, per diffamazione e violazione degli obblighi di assistenza familiare che, se fossero confermate, potrebbero costargli la decadenza dal Csm. Che intanto ieri gli ha consegnato un primo “vade retro”. Da notare come l’unico “no” alla decadenza di Brigandì stamattina sia stato dato dal consigliere laico del Pdl Nicolò Zanon. Che figura – lo ha raccontato la settimana scorsa “Il Corriere della Sera” – beneficiario di 24.960 euro a lui bonificati il 24 marzo attraverso il conto del “Rubygate” gestito dal ragionier Giuseppe Spinelli. Zanon ha spiegato che quei soldi sono il pagamento di una consulenza ai legali del premier regolarmente fatturata.

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