Quando Giuliano Ferrara si appresta a lanciare in orbita una delle sue abituali perfidie assume l’espressione goduriosa del bambino maligno e dispettoso: se la succhia in bocca quasi fosse una caramella. Eppure, quanti lo conoscono assicurano che in privato si rivela affabile e di grande generosità, affettuoso persino con gli animali. Di certo una personalità non omologabile agli standard berluscones. Se l’habitus mantiene un qualche valore interpretativo, lo si poteva capire benissimo quando sfoggiò, ministro del primo governo Berlusconi, un completo di lino candido. Ossia la tenuta cara a vecchi democratici come Gaetano Salvemini o Bernard Berenson, quanto del tutto esterna alle coordinate della distinzione di un qualsivoglia fighetta rampantino dell’allora Forza Italia.

Perché Ferrara non è un parvenu, semmai un “nob” (senza la s) in bretelle rosse molto british. Infatti il suo status natale risulta quello di un “bennato” dell’aristocrazia “rossa” romana, con un padre corrispondente da Mosca de L’Unità e la madre segretaria personale di nientemeno che Palmiro Togliatti. Sicché, mentre i suoi coetanei si curavano l’acne e bazzicavano i corridoi della Fgci, l’organizzazione degli juniores comunisti d’allora, lui era già a capo di una federazione senior tra le più importanti d’Italia, quale quella di Torino.

Si dice che un giovane diventa adulto uccidendo (metaforicamente) il padre. E Ferrara lo ha fatto pugnalando ripetutamente il Pci. Ma il partito comunista non era un padre qualunque, era infinitamente di più: una Chiesa. Da cui uscire comportava non pochi problemi psicologici. Probabilmente anche per il Nostro, la cui condizione di “spretato” può averne deviato l’evoluzione verso la maturità, trasformandolo in una sorta di Peter Pan incattivito; alla ricerca della propria ombra perduta e che si rintana tra i “ragazzi perduti” dell’isola che non c’è (un nome a caso: Lino Jannuzzi). Altrimenti non si spiegherebbe lo sdoppiamento della sua natura di cui si diceva, scissa nettamente tra la dimensione pubblica e quella privata. L’affettività nella sfera interna e – al tempo stesso – il cinismo e la rissosità all’esterno, in una sorta di costante peregrinazione alla ricerca di riferimenti “forti”; figure rassicuranti e protettive in quanto capaci di incarnare un tratto costitutivo della paternità: il comando.

Ecco – dunque – l’aspetto contraddittorio di una capacità di analisi e critica, affinata nella fuoriuscita giovanile dalla teocrazia secolare comunista, messa al servizio di un afflato religioso desacralizzato come culto del dio in terra: il Potere, nelle sue forme più pure perché autoreferenziali. Si chiami Bettino Craxi, Silvio Berlusconi o il papismo propugnato da ateo. Un percorso mentale sul coté laico che ricorda quello clericale di un altro nomade di grande intelligenza, con cui Ferrara ha lungamente battagliato per la pole position quale “consigliori” del Gran Capo: il Gianni Baget Bozzo, del tutto indifferente al messaggio salvifico cristiano quanto adoratore dell’istituzione bimillenaria chiamata Santa Romana Chiesa.

Del resto, anche in Ferrara riappare un atteggiamento tipico della buonanima di Baget: l’ostentazione sfacciata – dunque, provocatoria – delle proprie nequizie, quasi ad anticiparne la critica da parte degli avversari, per smontarne l’impatto preventivamente. Spia di fierezza della propria condizione di grande immoralista o sintomo di una fragile identità in equilibrio precario? Il prete savonese vantava la propria partecipazione a fallimentari avventure reazionarie come il tentativo autoritario del governo Tambroni di imbarcare i fascisti (poi stroncato dai moti di piazza del 1960); l’elefantino arriva all’impudenza di pavoneggiarsi coi dollari incassati dalla Cia per la propria opera di informatore sotto copertura dei servizi segreti. Un’infamia – quest’ultima – che diventa battutaccia ribalda, ma con una certa qual dose di grandiosità. Non le miserie di un “Betulla” Farina qualunque, scoperto a intorbidare le acque al soldo di mezze calzette alla Pio Pompa, il tizio del Sismi addetto alla disinformazione per conto del generale Pollari.

Difatti “i colpi bassi & porcate” di Ferrara non hanno mai lo stigma del travet, sono l’apoteosi tragica di una figura con una qualche dignità letteraria, quella del consigliere fraudolento. Resta del tutto incomprensibile – però – il rispettoso ascolto che tale “consigliere” continua a ricevere dal fronte avverso. Soprattutto da parte degli ex compagni piccisti. Spiegabile ancora una volta in chiave psicologica: la sindrome autolesionistica del dottor Faust sedotto da Mefistofele. Oppure – più semplicemente – qui si tratta di circonvenzione di incapaci.

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