Incentivi o meno alle fonti rinnovabili di energia, c’è un elemento che incide pesantemente nel determinare il divario tra il gran parlare delle stesse e l’assoluta insufficienza delle realizzazioni. Un elemento insito nella concezione della green economy come scelta strategica per far ripartire la crescita economica, come fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo giunto al suo capolinea storico. Ciò che sfugge ai sostenitori della green economy è che la sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili implica una ristrutturazione complessiva del sistema energetico. La maggior parte dell’energia non dovrà più essere prodotta in grandi centrali, ma in una miriade di piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete per scambiare le eccedenze.

Solo in questo modo si potranno risolvere i problemi legati alla discontinuità delle fonti rinnovabili, si potrà minimizzare il loro impatto ambientale, si potranno ridurre le perdite di trasmissione. Di conseguenza, la rete di distribuzione non potrà più essere strutturata su grandi dorsali con derivazioni ad albero, ma dovrà essere reimpostata come una rete di reti locali sul modello di internet. L’opera non è da poco, ma i problemi tecnici che pone non presentano difficoltà insormontabili. Molto più difficili da risolvere sono i problemi politici, perché ciò che si mette in discussione è il potere delle società multinazionali che gestiscono il mercato energetico. Le quali sono disponibili a investire e stanno investendo nelle fonti rinnovabili perché si rendono conto che è inevitabile, ma non possono accettare che l’autoproduzione riduca le loro quote di mercato. Non possono accettare che gli incentivi con cui i governi sostengono il settore vadano a una miriade di auto-produttori anziché a rimpinguare i loro bilanci.

Con l’alibi della riduzione dell’effetto serra e della creazione di occupazione nella green economy, i grandi impianti a fonti rinnovabili, oltre a devastare il paesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili delle grandi aziende energetiche. Con la copertura di tutti i partiti e di alcune associazioni sedicenti ambientaliste. E con la possibilità, sempre presente quando si sostengono con denaro pubblico attività in perdita, che una parte di quel denaro sia dirottata illegalmente in altre tasche dove non dovrebbe arrivare, come alcune operazioni intercettate dalla magistratura lasciano supporre sia accaduto o stesse per accadere.

La scelta strategica di spostare l’asse della produzione energetica su piccoli impianti di autoproduzione con scambio delle eccedenze in una rete di reti locali sul modello di internet, si inserisce nella scelta strategica di una politica economica finalizzata a creare occupazione nelle tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale: l’inversione della tendenza alla globalizzazione e la rivalutazione delle economie locali. La prima reazione agli effetti devastanti della globalizzazione si è avuta nel settore agro-alimentare con la rivalutazione dei prodotti tipici locali, delle cultivar autoctone, della stagionalità, delle cucine tradizionali, delle filiere corte, dei mercati contadini. In questa inversione di tendenza, che ha assunto le connotazioni di un’alternativa globale ai prodotti insapori, avvelenati e destagionalizzati dell’agricoltura chimica, trasformati in cibi standardizzati dall’industria alimentare, trasportati a distanze anche intercontinentali, commercializzati dalla grande distribuzione organizzata, un ruolo decisivo è stato svolto da alcune associazioni di produttori e di acquirenti: i salvatori di semi e i coltivatori biologici da una parte, Slow Food e i gruppi d’acquisto solidale dall’altra.

A partire dall’esperienza dei gruppi d’acquisto solidale, la rivalutazione dei modi di produzione tradizionali e la commercializzazione diretta tra produttori e acquirenti si sta estendendo al settore dell’abbigliamento con risultati sorprendenti. Aziende che lavoravano come contoterziste per grandi marchi ed erano costrette dalla concorrenza internazionale a subire condizioni contrattuali che le obbligavano a ridurre il personale, delocalizzare in paesi con manodopera a costi inferiori, utilizzare materiali scadenti e tecniche di lavorazione inquinanti, sono riuscite a liberarsi dal giogo della globalizzazione vendendo direttamente le loro merci ai gruppi di acquisto solidale. Poiché operano a dimensione locale, realizzano prodotti svicolati dalla necessità di adeguarsi alle variazioni imposte in continuazione dalla moda e saltano le intermediazioni commerciali, possono utilizzare materiali qualitativamente superiori e tecniche di lavorazione tradizionali meno inquinanti. Nonostante ciò, riescono a vendere a prezzi molto inferiori a quelli delle grandi marche e al contempo più remunerativi per loro, per cui hanno rilocalizzato e assunto nuovi occupati a eque condizioni contrattuali.

Anche nell’esperienza di queste aziende la crescita dell’occupazione non è stata determinata dalla crescita della produttività e dalla ricerca spasmodica di ridurre i costi di produzione per far fronte alla concorrenza internazionale, ma da scelte di carattere qualitativo che comportano la riduzione del consumo di merci, che non sono beni (e, quindi, una decrescita guidata del pil): capi d’abbigliamento confezionati per durare nel tempo, che con un apparente ossimoro potremmo definire di moda durevole; produzione per mercati locali e riduzione del consumo di fonti fossili per il trasporto; uso di materiali e tecniche di lavorazione ecocompatibili; patto tra gentiluomini con gli acquirenti basato sulla trasparenza del prezzo; fidelizzazione della clientela mediante una commercializzazione finalizzata ad accrescere la conoscenza di come è fatto ciò che si compra; vendita diretta senza intermediazioni commerciali. Tutto ciò testimonia la storia breve, ma ricca di futuro, delle imprese nel settore dell’abbigliamento riunite nella rete dei Gas.

Una storia riproducibile nel settore dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili. Per una vera green economy.

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