Carbone in Calabria per produrre energia elettrica attraverso una nuova centrale. Capita nell’estrema punta sud, tra l’Aspromonte e il mare Ionio. In realtà si tratta di un progetto. Però, dalla carta alla costruzione ci passa poco. Quanto? Cinque anni di lavori e un costo complessivo di un miliardo e 200 milioni di euro. Tanto dovrebbe costare l’impianto di Saline Joniche, approvato definitivamente nel 2008, e subito diventato il simbolo della lotta ambientalista.

Il ministero dei beni culturali, le amministrazioni locali e gran parte della società civile si oppongono al progetto mentre secondo la SEI, la società titolare del progetto, la centrale sarebbe il volano dello sviluppo del territorio e impiegherebbe 850 persone durante la costruzione e circa 300 a regime (ma il documento ufficiale parla di 140 posti di lavoro).

Un progetto ambizioso, in un territorio dall’alto valore paesaggistico e già deturpato dalla fabbrica Liquichimica, costruita nel 1974 al fine di produrre bioproteine per i mangimi animali e mai entrata in funzione. L’alta ciminiera e i capannoni abbandonati, così come i 600 operai rimasti per 18 anni in cassa integrazione, sono il simbolo di uno dei fallimenti industriali dell’Italia del boom. Il ministero dell’Ambiente ha dato l’ok alla valutazione di impatto ambientale, sia pure con riserva, ma ha incassato il no del ministero dei Beni culturali, che ha accertato l’esistenza di vincoli archeologici e paesaggistici, e del consiglio regionale della Calabria, secondo cui il progetto «è incoerente con il piano energetico regionale, non è prioritario, è contrario alla vocazione turistica dell’area».

Poi c’è il nodo dell’inquinamento, il punto che preoccupa di più ambientalisti e cittadini, scesi in piazza l’8 novembre del 2010 in seguito all’approvazione della V.i.a. “Il carbone resta la fonte fossile a maggiore emissione di CO2 – spiega il dirigente di Legambiente Nuccio Barillà – ed è assurdo che l’Italia scelga di fare marcia indietro rispetto alle direttive che arrivano da Kyoto e Copenaghen. La centrale di Saline emetterà 7,5 milioni di CO2 in più l’anno e ancora una volta, facendo leva sul ricatto occupazionale, si sancirà la morte di questo territorio. Oltre alle sanzioni che graveranno sullo Stato per il mancato rispetto degli accordi internazionali sul clima”.

Le 12 centrali a carbone italiane emettono 42 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, e solo nel 2009 (dati Enea) hanno sforato di 6,8 milioni i limiti imposti dal protocollo di Kyoto (nel 2008-2012, 6,5% in meno di emissioni di gas serra rispetto al 1990). Inoltre l’Italia è soggetta al pacchetto Ue definito “clima-energia”, che prescrive la riduzione delle emissioni, tra il 2013 e il 2020, di almeno il 20% rispetto al 1990.

“Non nego l’inquinamento – precisa l’ad della SEI Fabio Bocchiola – ma non bisogna esagerare. La centrale di Saline inciderà per 3 milionesimi sulla CO2 del pianeta, e sarà dotata di tutte le più moderne tecnologie per il controllo delle emissioni, compresa la CCS (carbon capture and storage). Inoltre uno studio dell’istituto Mario Negri ci assicura che non esistono legami tra i tumori e l’uso del carbone”.

Legambiente perà obbietta: CCS, tecnologia per il sequestro e lo stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica, è ancora in fase sperimentale. Il suo successo commerciale è tutto da verificare, a causa degli alti costi e dei rischi connessi all’improvvisa fuoriuscita della CCS dal terreno. L’Unione europea ha finanziato progetti dimostrativi della CCS da applicare a 12 centrali ma tra queste, proseguono le fonti ambientaliste, l’unica in Italia è Porto Tolle.

“l Paese ha bisogno di energia a basso costo, soprattutto al sud, e solo il carbone può darla – aggiunge, invece, Bocchiola – per produrre 1.300 Mw (la potenza della centrale progettata) ci vorrebbe un campo di pannelli fotovoltaici grande 20×2 chilometri. Noi andiamo avanti, avvieremo campagne informative per spiegare alla gente che la centrale non è dannosa e che farà decollare l’economia locale, turismo compreso». Oggi la SEI attende l’esito del ricorso contro il ministero dei Beni culturali, e anche se la valutazione di impatto ambientale ha dato ragione alla società, la politica sicuramente non sta dalla sua parte: “Non sono mai apparsi chiari gli interessi che graviterebbero sulla SEI – dichiara la deputata del Fli Angela Napoli – . ma anche quelli della SIPI, titolare dell’area su cui si trovava l’ex Liquichimica, e per anni fonte di speculazione”. Per l’assessore alle Attività produttive della Calabria, Antonio Caridi la “regione non ha imposto una nostra linea, ma da subito abbiamo assecondato le istanze degli amministratori locali, contrari alla centrale”.

Da un lato, il ministero dell’Ambiente dà il via libera a nuove centrali a carbone (sei autorizzate, Civitavecchia inaugurata e Saline in attesa di autorizzazione), dall’altro, attraverso il suo ministro Stefania Prestigiacomo dichiara: “Le rinnovabili e tutta la filiera che ruota attorno allo sviluppo sostenibile sono la scommessa sul futuro che l’Italia non può perdere”. Anche il parere tecnico dell’Enea, nel rapporto Energia e ambiente 2010, è lapidario: l’agenzia per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile ritiene “necessario il pieno sviluppo della tecnologia per le energie rinnovabili e di grande importanza la decarbonizzazione del parco di generazione elettrica”.

Tuttavia, a Saline Joniche, il no al carbone deve essere accompagnato da un progetto alternativo. Da 36 anni il relitto della Liquichimica giace a due passi dal mare e, oggi come ieri, nessuno lo rimuoverà senza niente in cambio. Intanto, in un territorio con la disoccupazione al 19%, le autorità hanno sempre parlato di “vocazione turistica”, ma da allora hanno fatto poco o nulla per lo sviluppo del turismo nella zona. E nulla è cambiato, in questo estremo lembo di Calabria. I gabbiani svolazzano da un tronco all’altro del vecchio porto, insabbiato da anni e ormai quasi inghiottito dal mare.

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