Sebbene il nuovo film di Veronesi non ne avesse bisogno, la presenza di Robert De Niro nel cast di Manuale d’amore 3 – nelle sale da domani – significa più pubblico, copertine, interviste, risonanza insomma. Potrà sembrare vagamente eretico, ma non è sbagliato riflettere su chi, allo stato delle carriere di entrambi, faccia il favore a chi. Un paradosso solo apparente in realtà. Del resto, Giovanni Veronesi rimane uno dei registi più in voga del cinema italiano, mentre l’amato De Niro è ormai un attore di serie B che da troppi anni fa qualunque cosa gli chiedano di fare. Certo, coi suoi vecchi film ha di che vantarsi per almeno due vite, ed è proprio quello che sembra volerci ricordare, ripetendo da troppo le stesse facce in ruoli che vent’anni fa nessuno si sarebbe azzardato a proporgli.

A Giovanni Veronesi va riconosciuto il merito di tentare un metodo produttivo che, per timore o più credibilmente per mancanza di denaro, pochissimi da noi si sognerebbero di mettere in pratica: scrittura i divi stranieri (o quelli che lo erano) e li mischia ad un cast nostrano, ottenendo uno strano oggetto filmico che può avere successo come non averlo, è il caso dello sfortunato Il mio West. Lo straniero oltretutto deve risaltare il più possibile, per questo non c’è amalgama tra lui e gli altri attori, sempre lì adoranti anche quando hanno tempi recitativi migliori dei suoi. Veronesi è l’unico a chiamarli, coi soldi di De Laurentiis che non tutti hanno ovviamente, ma intanto li chiama. Lo aveva già fatto con un’icona come David Bowie, un caratterista come Paul Sorvino o un grande attore come Harvey Keitel, che però fa discorso a sé dal momento che torna ciclicamente a girare in Italia.

In Manuale d’amore 3 il fattore De Niro può essere letto come un buon segnale oppure come l’ennesima prova di un vassallaggio inaccettabile. A livello ideale può ricordare un passato in cui Visconti sceglieva come alter-ego Burt Lancaster e Fellini faceva di Donald Sutherland un geniale Casanova. Altri nomi e altro cinema, manco a dirlo. Fatto sta che l’ex attore-feticcio di Scorsese fa il suo lavoro, si mette in campo e recita, peraltro in un credibilissimo italiano, in un film che rischia di essere uno dei suoi migliori al passivo di un’ultima tranche di carriera, salvo rarissime eccezioni, eufemisticamente non all’altezza. Dopo aver lavorato con Bertolucci e Leone, De Niro torna in Italia per recitare, che già di per sé è un punto a suo favore, e non più per prestare il volto ad uno spot di venti secondi trasmesso solo all’interno dei nostri confini.

Perché, se nel passato i grandi attori americani attraversavano l’oceano per girare con Germi, Antonioni, Pontecorvo, Leone e Bertolucci, negli ultimi decenni ci vengono a trovare solo per la pubblicità. Pagati a peso d’oro, associano facce sempre più imbolsite al prodotto di turno per campagne da diffondere esclusivamente su suolo italiano. Solo in questo modo la loro immagine pubblica non viene compromessa, rimanendo totalmente illibata negli Stati Uniti; vecchio discorso non poco fastidioso che ora la rete contribuisce a svelare: basta fare un giro su google per trovare gli incredibili spot di Schwarzenegger, Di Caprio, Gere, Lopez, Theron e tutti gli altri. La caratura dei nomi coinvolti conferma quanto non sia necessario essere sul viale del tramonto come il Bill Murray di Lost in Translation per accettare di comparire in uno spot: a quanto pare qualche dollaro in più fa comodo anche a chi si tiene in saldo equilibrio sulla cresta dell’onda.

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