NEW YORK. Genocidio, crimini di guerra, apocalisse, intervento della comunità internazionale, riunioni di emergenza alle Nazioni Unite. Una dietro l’altra, le parole pronunciate dall’ambasciatore Ibrahim Dabbashi lasciano i giornalisti a bocca aperta.

Lui, il diplomatico che ha rappresentato il volere di Gheddafi al Palazzo di Vetro, gli volta le spalle e chiede alla comunità internazionale di fermare il “cane pazzo” che sta massacrando la sua stessa popolazione. Come lui, molti ambasciatori in giro per il mondo hanno detto di non riconoscersi più nel Colonnello. Il responsabile delle relazioni con Pechino ha dichiarato la sua estraneità al “governo di Mussolini e Hitler”.

L’Onu, ha detto Dabbashi, deve stabilire una “no fly zone” per impedire che i “mercenari”, assoldati dal Colonnello in altri Paesi africani, facciano strage dei libici che stanno protestando. Il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio dei diritti umani, il procuratore della Corte penale internazionale: tutti devono essere convocati “d’urgenza” per fermare quello che viene chiamato “genocidio”. Il Consiglio di Sicurezza si riunirà oggi alle 15, sotto la presidenza di turno del Brasile.

“Mi spiace fare richieste alla comunità internazionale per il mio Paese, ma non vedo alternativa”, ha detto Dabbashi rivolto ai giornalisti alla rappresentanza diplomatica della Libia presso le Nazioni Unite, a Midtown Manhattan. Sorprende vedere un diplomatico voltare le spalle così platealmente – e con toni così duri – al leader della sua nazione. E fa temere sulla “apocalisse” che secondo Dabbashi è in corso in Libia, paese vietato ai giornalisti.

L’ambasciatore, il numero due della missione diplomatica, chiede la costituzione di “un corridoio di sicurezza per fare giungere, il prima possibile, aiuti umanitari”. Per fare arrivare cibo e medicinali “i tunisini e gli egiziani potranno essere d’aiuto, anzi lo stanno già facendo”.

Per Dabbashi “è impossibile rimanere in silenzio, dobbiamo trasmettere la voce del popolo libico al mondo”.

Non si hanno notizie del numero uno della rappresentanza della Libia all’Onu, Mohamed Shalgam, sparito da New York da venerdì scorso. Shalgam ha parlato solo con il giornale panarabo Al Hayat, dicendo di essere in contatto con il Colonnello per “persuaderlo a fermare questi atti”. Insomma, sta provando a giocare le ultime carte in una partita che secondo molti, per Gheddafi, è già persa.

Washington, un tempo nemico giurato di Tripoli, resta a guardare. “Con grande preoccupazione”. Il presidente Obama non ha commentato, non subito almeno. Il segretario di stato, Hillary Clinton, chiede di “fermare questo bagno di sangue”. I diplomatici dispiegati nel Paese – i rapporti sono stati riallacciati nel 2009 – sono stati evacuati, tutti tranne quelli assolutamente essenziali.

I potenti d’America guardano alla Libia in maniera diversa rispetto all’Egitto e alla Tunisia, che erano considerati – nel bene o nel male – degli alleati. Solo tre anni fa George W. Bush chiamò Gheddafi, chiudendo un lungo capitolo di incomprensione e violenze tra i due Paesi. Nel 1986 gli americani bombardarono Tripoli (molti i morti civili, tra cui la figlia del Colonnello). Poi arrivò il 1988, Lockerbie, l’attentato libico contro l’aereo della Pan Am, costato la vita ad oltre cento persone.

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