La Libia va fuori controllo e il mercato si fa prendere dal panico. In attesa di capire come possa evolversi la situazione, il terremoto si espande dal suo epicentro, Tripoli, scuotendo nel peggiore dei modi le piazze finanziarie. A pesare, ovviamente, il contraccolpo patito dal petrolio che segna prezzi record tanto sul fronte statunitense (siamo attorno agli 89 dollari per i futures di aprile) quanto su quello europeo dove il Brent tocca quota 105 dollari per barile realizzando così il suo primato dal settembre 2008 a oggi. Ma non mancano le preoccupazioni circa il futuro prossimo delle compagnie straniere presenti in Libia nonché sulle prospettive di gestione del ricco fondo sovrano locale le cui partecipazioni si sono diversificate da tempo.

Alla chiusura delle contrattazioni, Piazza Affari ha ceduto il 3,59% (contro il -1,12 di Londra e il -1,41% di Francoforte) trascinata sul fondo dal lunedì nero dei titoli più esposti. Eni ha perso il 5,12%, UniCredit il 5,85, Finmeccanica il 2,69 mentre Impregilo ha segnato il primato negativo della giornata con un devastante -6,17%. Si tratta, ovviamente, di una caduta prevedibile visti i forti legami dei colossi italiani con il business libico. Impregilo ha in ballo qualcosa come 1 miliardo di euro di commesse ingegneristiche nel Paese mentre Finmeccanica è partecipata al 2,01% dalla Lybian Investment Authority, il fondo sovrano di Tripoli già azionista di Unicredit (2,5% circa) così come la Central Bank of Lybia (che possiede quasi il 5% dell’istituto di Piazza Cordusio). Nel corso del 2010, Roma e Tripoli hanno realizzato scambi commerciali per circa 13 miliardi di euro.

La Borsa piange, dunque, mentre il Paese piomba nel caos. Riassunto degli ultimi avvenimenti. Muammar Gheddafi si è (momentaneamente?) eclissato lasciando al figlio Saif al Islam il compito di dar voce alla disperazione del regime. Il secondogenito del dittatore ha promesso di stroncare la rivolta, ma le sue sono sembrate parole al vento. Nel corso delle manifestazioni degli ultimi quattro giorni, ha riferito oggi Human Rights Watch, ci sarebbero stati oltre 230 morti in quella che ormai appare sempre di più come una rivoluzione in piena regola. Mentre si mormora di una fuga dello stesso padre della patria in direzione Venezuela (ma qualcuno ha anche paventato l’ipotesi che il Colonnello possa chiedere asilo in Italia sfruttando la sua consolidata amicizia con Berlusconi gli ultimi aggiornamenti raccontano delle dimissioni del ministro della giustizia Mustafa Abdul-Jalil, polemico nei confronti “dell’eccessivo uso della forza” nella repressione dei moti di piazza. Un segnale evidente, insomma, di come il regime abbia ormai le ore contate. I manifestanti, riferisce via Twitter il direttore del quotidiano Gulf News (Emirati Arabi) Abdul Hamid Ahmad, avrebbero ormai assunto il controllo di alcune delle principali città come Bengasi e Sirte nonché di alcuni uffici governativi e della sede della televisione di Stato nella capitale.

Il Paese, insomma, va a fuoco e le società straniere si cautelano. Finmeccanica ha iniziato le operazioni di rimpatrio del proprio staff così come Eni, che pure ha negato qualsiasi “problema agli impianti e alle strutture operative”. Stessa scelta di evacuazione del personale per la britannica Bp, la Royal Dutch Shell e la norvegese Statoil. Il timore conclamato è relativo alla sicurezza degli impianti, e non potrebbe essere diversamente. Circa 50 dipendenti della compagnia serba Petrolcomet sono stati attaccati da un gruppo armato presso la città libica di Ras Lanuf. Nelle ultime ore, infine, Shaikh Faraj al Zuway, capo della tribù Al-Zuwayya nella zona orientale del Paese, ha minacciato il blocco delle esportazioni petrolifere se la repressione dovesse continuare. Una pessima prospettiva alla luce del peso dell’oro nero di Tripoli sul mercato. Secondo i dati dell’International Energy Agency, la Libia è il dodicesimo esportatore mondiale di petrolio con circa 1,1 milioni di barili collocati ogni giorno sul mercato estero. Le sue riserve ammonterebbero a 44 miliardi di barili.

L’incertezza sul futuro di Tripoli non contribuisce certo a rasserenare i vertici dell’Eni, la compagnia che più di ogni altra appare oggi sensibile ai mutamenti politici del Paese. L’azienda, è vero, è presente in Libia da decenni. Eppure la sua presenza ha assunto negli ultimi anni un significato diverso. Eni opera nel Paese attraverso quattro diverse società: Eni North Africa BV Amsterdam, Agip Gas BV, Agip NAME e, soprattutto, Promgas, una joint-venture con la Gazexport, a sua volta controllata dal colosso russo Gazprom. Proprio Gazprom, ha raggiunto in questi giorni un accordo con la società italiana per l’acquisizione del 50% della partecipazione italiana nel progetto Elephant per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero nel Sud del Paese, a circa 800 chilometri da Tripoli. Un accordo valutato in 163 milioni di dollari.

I rapporti Eni-Gazprom sono consolidati anche in Russia. Per la fine di febbraio, il cane a sei zampe dovrebbe firmare un contratto per la compravendita di metano proveniente dai giacimenti di Severenergia, una società partecipata anche dall’Enel e costituita in parte grazie alla liquidazione degli assets di Yukos, la compagnia finita sotto il controllo diretto di Mosca dopo l’inizio dei guai giudiziari del suo magnate Mikhail Khodorkovskij. L’Eni, insomma, è diventata, volente o nolente, un elemento chiave nel mantenimento dei “rapporti di amicizia” costruiti dall’Italia con Putin, Medvedev e Gheddafi nel corso degli ultimi anni e che tanto hanno disturbato Stati Uniti e Unione Europea. Inevitabile, ora, che l’assoluta incertezza sul futuro della Libia crei non poche preoccupazioni al governo italiano e ai vertici della compagnia.

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