Il Torino Film Festival dedicherà a Robert Altman (1925 – 2006) una retrospettiva in cui all’intera filmografia cinematografica la curatrice Emanuela Martini ha provvidenzialmente scelto di affiancare buona parte dei lavori girati per la televisione. Sul comunicato del TFF (dal 25 novembre al 3 dicembre) per ora sono citati i “film televisivi Basements da Pinter, con John Travolta, Secret Honor sul presidente Nixon e il Watergate, The Caine Mutiny Court-Martial” cui si aggiungerà una selezione delle serie televisive da augurarsi il più vasta possibile, considerando che i lavori del regista girati per la Tv sono quasi il doppio di quelli per il cinema.

Nato proprio il 20 febbraio in quella Kansas City che omaggiò con un omonimo e sottovalutato film del ’93, Robert Altman inizia dalla televisione come altri cineasti della sua generazione quali Arthur Penn e Sam Peckinpah. Più degli illustri colleghi però, il padre della destrutturazione cinematografica americana ha continuato per tutta la carriera a frequentare il piccolo schermo: dopo la Palma d’oro a Cannes per M.A.S.H. (1970), dopo gli allori che gli tributò la critica – europea ovviamente – nei decenni a venire fino ai quattro episodi di Tanner on Tanner (2004), due anni prima cioè della scomparsa che coincise con l’uscita di Radio America.

Nonostante questo rapporto davvero privilegiato, Altman ha sempre cercato di “smontare l’apparecchio televisivo”, di analizzarlo a fondo, criticarlo, mettendone a nudo falsità e potere mistificatorio. In realtà l’argomento gli stava così a cuore da trattarlo anche in quel suo cinema babelico a cui tanto devono il Paul Thomas Anderson di Boogie Nights e Magnolia o il primo Tarantino. Solo un esempio: alla fine di America oggi, un giornalista televisivo indica quale causa della morte di una ragazza il terremoto che ha sconvolto la vita di tutti i protagonisti nell’ultimo terzo del film. Lo spettatore però conosce ben altra verità. Non è andata così, ma nessuno lo saprà. Non ci si può fidare di un media che redige i fatti, tutto qui.

Nei film di Altman chi guarda la televisione lo fa distrattamente, quasi fosse più attento alla forma dell’elettrodomestico che al messaggio comunicato. La critica ancora una volta non è al mezzo, ma all’utilizzo che se ne fa, come ha cercato di dimostrare il regista di Nashville con cinquant’anni di buona quando non ottima produzione per uno schermo mai reso veramente piccolo. Anche per questo non era amato in patria, né dal grande pubblico che lo considerava troppo europeo, né dall’establishment dello spettacolo; poco conta, in questo senso, un Oscar alla carriera impropriamente risarcitorio. Tra i più tenaci oppositori di Bush Jr., il grande regista godette non poco quando W. – rispondendo ad una sua provocazione che fece il giro del mondo: “Se sarà eletto presidente me ne andrò in Francia” – affermò di non aver mai visto uno dei suoi film. Peccato per lui.

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