Se queste sono le premesse del nuovo decisionismo del governo in materia di economia, le imprese italiane hanno poche ragioni per essere ottimiste. L’esecutivo che promette una crescita del 3-4 per cento all’anno non riesce neppure a trovare una linea sul giorno di festività per i 150 anni dell’Italia unita proclamato per il 17 marzo. “Ho votato contro, a suo tempo, in Consiglio dei Ministri e sono e resto completamente contrario al fatto che l’attribuzione delle caratteristiche di festivita’ nazionale, conferita alla data del 17 di marzo, comporti la chiusura di molti uffici pubblici”, dice Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione, che da leghista non vede bene cosa ci sia da festeggiare, tanto più che ha appena dovuto incassare lo stop al federalismo municipale (faticando non poco per evitare che l’ala più dura della Lega, quella di Roberto Maroni, affondasse il governo dopo la bocciatura in bicamerale). Meglio “festeggiare lavorando” per Calderoli, senza esagerare con il patriottismo.

Certo, la festa del 17 marzo creerà qualche imbarazzo anche ai berlusconiani, con il presidente del Consiglio che non è nelle condizioni più adatte per incarnare lo spirito unitario. Ma che si lavori o no, Silvio Berlusconi dovrà celebrare in qualche modo la festa, anche se forse sarà passato dalla categoria di indagato a quella di imputato. Il Partito democratico, che non sembra avere molto di meglio di cui occuparsi, ne sta facendo una battaglia di principio. Walter Veltroni, il più incline al fascino della retorica (ha anche scritto un libro che si chiama “Noi”) ne fa una questione di principio: “Festeggiarsi è necessario. Bisogna fermarsi un attimo, ritrovarsi italiani è una cosa bella per il Paese”. Qui siamo però sul piano dei sentimenti personali e neppure Carlo Azeglio Ciampi, quando stava al Quirinale, è riuscito davvero a impiantare un sentimento collettivo di entusiasmo patriottico. E ogni tentativo di celebrarlo – basti pensare al terrificante film “Noi credevamo” di Mario Martone – risulta sempre posticcio, motivato soltanto dal calendario che lo impone.

Ma la cosa bizzarra è che in queste ultime ore il destino dell’intera economia italiana sembra appeso al 17 marzo. Emma Marcegaglia, che ha avviato la polemica sull’opportunità di fermare il lavoro, dà voce ai timori della Confindustria: “Siamo favorevoli ai festeggiamenti che sono essenziali, ma in un momento come questo un onere di 4 miliardi di euro per le imprese forse non è la cosa migliore per la crescita”. A tanto ammonterebbe, secondo la presidente degli industriali, il costo per le imprese, tra stop della produzione e costi aggiuntivi per quelle che dovranno pagare maggiorazioni ai dipendenti che comunque lavoreranno in un giorno di festa.

L’impressione diffusa, per la verità, è che l’economia italiana sia così impaludata che un giorno in più o in meno non faccia grande differenza per il Pil. Tanto più che il 17 marzo cade di giovedì e, come hanno fatto notare gli imprenditori del turismo, un ponte lungo fino alla domenica farebbe un gran bene a un settore che soffre, soprattutto dal punto di vista della domanda interna. “Noi diciamo che la si può celebrare andando a scuola o lavorando; a scuola con momenti in cui si parla dell’Unità d’Italia, mentre nelle aziende siamo totalmente disponibili e lieti di fare un momento di grande celebrazione e attenzione anche in una giornata di lavoro”, dice la Marcegaglia. Dove lo ha detto? A margine di un convegno, ovviamente, perché i rappresentanti degli elettori, come i parlamentari, non sono così ossessionati dal lavoro “H24 e 7/7” come potrebbe sembrare dalle loro dichiarazioni.

Infine stupiscono un po’ anche le dichiarazioni della Cgil: “Si può dare un po’ di riposo ai lavoratori, quelli che lavorano”, dice il segretario generale Susanna Camusso, perplessa dalle polemiche. A voler essere polemici, notano i suoi critici, si può ricordare che da mesi la Cgil respinge le richieste della Fiom di uno sciopero generale con la motivazione che in tempo di crisi i lavoratori non possono permettersi di rinunciare neppure a un giorno retribuito. E quindi l’adesione rischierebbe di essere bassa.

Manca un mese, ancora qualche settimana di inutili polemiche, poi anche Confindustria e Calderoli dovranno tornare a occuparsi della disoccupazione giovanile al 29 per cento, del Pil inchiodato all’uno per cento di crescita annua, delle nuove regole europee sul debito pubblico che rischiano di spazzare via governo, opposizione e servizi pubblici. Nell’attesa si crogiolano nel dibattito sul 17 marzo, rimandando a dopo le cose più serie.

Articolo Precedente

Crisi economica, gli asset tossici
minacciano le banche americane

next
Articolo Successivo

Cdm, via al progetto “crescita”. L’ultimo appello di Berlusconi a Confindustria

next