Ancora qualche mese e Cuba finirà di essere l’unica nazione isolata dalla rete mondiale di telecomunicazioni. Almeno da un punto di vista tecnico, perché internet nell’isola di Fidel Castro resta oggetto di pesanti censure. Domani, a Siboney, nei pressi di Santiago de Cuba, dovrebbe approdare la nave dell’impresa francese Alcatel-Lucent che due settimane fa a La Guaira, in Venezuela, ha iniziato la posa dei cavi sottomarini in fibra ottica che collegheranno l’isola con il resto del mondo: 1.552 km di cavi per un progetto da 70 milioni di dollari finanziato nell’ambito dell’Alba, il programma di cooperazione politica ed economica per l’America latina avviato nel 2004 dall’asse Caracas-L’Avana.

L’impianto, che dovrebbe essere attivato a luglio, con i suoi 640 gigabyte di capacità rappresenterà una vera rivoluzione per il sistema di telecomunicazioni cubano, che ancora oggi dipende dai satelliti, gravato dalla lentezza e dagli alti costi. La fibra ottica permetterà lo scambio di dati e la condivisione di audio, immagini e filmati a una velocità di 3.000 volte superiore a quella attuale.

Tuttavia non è chiaro se questa velocità servirà solo a fortificare gli apparati dello Stato o anche ad accelerare l’uscita dall’isolamento di 10 milioni di cittadini cubani. Ed è proprio questo il nodo della questione, in un Paese dove un’ora di connessione a internet costa 6 pesos convertibili (4,80 euro), ovvero un terzo di uno stipendio mensile di un professionista, e dove fino al 2008 era illegale possedere un computer.

Oggi solo il 12% della popolazione utilizza internet, ma il web resta rigidamente controllato e tranne che per alcune categorie (funzionari di partito, docenti universitari, medici, magistrati, operatori del turismo) avere un proprio account di posta elettronica è illegale.

La stampa ufficiale (Granma e Juventud rebelde) parla in generale di “potenziamento della sovranità e della sicurezza nazionale” e di “miglioramento dei servizi di telecomunicazione”, ma non fa alcun riferimento al libero accesso alle informazioni da parte dei cittadini.

In questo contesto è credibile lo scetticismo di alcuni sui reali obiettivi del progetto: «Questa connessione sottomarina sembra più destinata a controllarci che a metterci in contatto con il mondo – scrive sul blog Generación Y la nota dissidente Yoani Sanchez – ma confido che riusciremo a sovvertire i suoi propositi iniziali».

«La nuova rete servirà a rompere il blocco criminale degli Stati Uniti contro il nostro Paese», ha dichiarato l’ambasciatore cubano in Venezuela Rogelio Polanco, e non si può negare che in passato gli effetti dell’embargo statunitense abbiano, tra l’altro, impedito anche lo sviluppo di un moderno sistema di telecomunicazioni.

Ma il bloqueo (così i cubani chiamano l’embargo) da tempo non è più quel formidabile alibi con cui l’Avana ha giustificato per decenni ogni problema interno, soprattutto dopo le misure varate nel 2009 da Barack Obama per allentare la stretta economica. Oltre alla revoca di alcuni provvedimenti voluti da Bush (limitazioni sull’invio delle rimesse e sui viaggi a Cuba degli emigranti), la Casa Bianca ha autorizzato le compagnie telefoniche locali a stipulare accordi con Cuba per l’installazione di infrastrutture di telecomunicazione, compresi cavi in fibra ottica. Pochi mesi dopo Telecuba, impresa con sede a Miami, presentò un progetto più facile ed economico rispetto a quello poi intrapreso con il Venezuela: 177 km di linea, dalla Florida a Cuba, per un costo di 18 milioni di dollari. Ma il via libera dell’Avana al progetto non arrivò mai: le autorità cubane chiesero alle compagnie telefoniche statunitensi di pagare ad Etecsa (la compagnia telefonica di Stato) 84 centesimi per ogni minuto di chiamata, troppi secondo Washington.

È curioso che sia stato scartato un progetto così conveniente, e forse le ragioni stanno altrove. I burocrati di Plaza de la Revolución potrebbero considerare più “sicuro” e governabile un collegamento che arriva da sud, dalle spiagge dell’amico Chávez, invece che da nord, da quella Florida che fu l’approdo di tanti esuli e che sarebbe potuta diventare la risolutiva finestra da cui guardare il mondo.

di Marco Todarello

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