Il fondatore di WikiLeaks Julian Assange

Dopo le rivelazioni che hanno mandato in tilt la diplomazia americana, si consuma la rottura tra Wikileaks e i giornali protagonisti della fuga di notizie. E Julian Assange, la fonte che non più di sei mesi fa ha depositato sulle scrivanie del giornale una miniera di dossier ed informazioni secretate (nientemeno che il più grande archivio di documenti riservati mai arrivato nelle mani dei media), viene ora definito come una fonte “elusiva e manipolatrice”.

“Indossava una parrucca da donna e un cappotto lungo, e la macchina su cui viaggiava si fermava costantemente sulla corsia d’emergenza, a fari spenti, per depistare possibili inseguitori”: così il quotidiano britannico descrive ora Assange,

Assange voleva collaborazione, e nel giugno 2010 offrì appunto al Guardian l’intero contenuto del suo archivio. File che raccontavano di intrighi politici, di cospirazioni dietro le quinte, di morti invisibili, di strategie e guerre crudeli. Quel tesoro conteneva le carte dell’esercito americano sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, e oltre 250.000 cablaggi diplomatici tra le ambasciate americane di tutto il mondo. “Il Guardian ci chiamò, e ci chiese se eravamo interessati,” scrive Bill Keller, direttore del New York Times: “Lo eravamo”.

Così cominciò il lavoro congiunto, con Julian Assange e WikiLeaks da un lato, e tre diverse testate, Guardian, NYT ed il tedesco Der Spiegel, dall’altro. Un team venne messo insieme per passare in rassegna il gigantesco materiale e per coordinarne la pubblicazione.

“L’avventura dei sei mesi seguenti univa l’intrigo di cappa e spada a un più mondano lavoro di ricerca”, spiega Keller in un editoriale di 9 pagine sul NYT di sabato sulla collaborazione con WikiLeaks. “Il progetto implicava inoltre uno stretto contatto con una fonte (Assange, ndr) elusiva, manipolatrice e volatile”. Anche il Guardian ha cambiato il tiro su Assange, pubblicando ieri un libro, WikiLeaks: Inside Julian Assange’s War on Transparency, che rivela i vari retroscena del lavoro tra il quotidiano londinese e WikiLeaks, con particolari sulle divergenze createsi, che hanno infine portato alla rottura.

Scelte editoriali così simili lasciano intendere che qualcosa sia andato davvero storto, tra l’ex hacker australiano e i suoi “complici”, per spingerli a tagliare i ponti con una fonte esclusiva e il suo pozzo senza fondo di informazioni uniche. Scrive Keller: “Consideravamo Assange come una fonte, non come un partner o un collaboratore, ma si trattava di un uomo che chiaramente aveva i suoi piani”. E ora si scopre anche che sin dai primi meeting a Londra, Assange è apparso ai giornalisti come un uomo “di grande intelletto, estremamente abile ma arrogante, accorto e con un fare da cospiratore”.

Di carattere estremamente volubile e convinto di essere costantemente osservato e pedinato, il fondatore di WikiLeaks aveva preso le sue precauzioni già prima di contattare il Guardian. “Aveva disseminato copie criptate dell’intero archivio ad una moltitudine di supporter, e nel caso venisse arrestato o WikiLeaks venisse chiusa, avrebbe immediatamente reso pubbliche le chiavi di accesso a tutto,” scrive Keller. Eric Schmitt, investigative reporter per il NYT, descrive Assange come un uomo con un fare da Peter Pan, che bilanciava con gli ideali l’aura cospiratrice che lo avvolgeva.

Ai tempi delle prime pubblicazioni congiunte, Assange pose un’unica condizione: che i file venissero pubblicati seguendo una serie di date specifiche, non prima che WikiLeaks avesse caricato i dati su un sito web accessibile a chiunque. I file sull’Afghanistan per primi, poi l’Iraq, infine gli embassy cables. “Per WikiLeaks, almeno all’inizio, l’unica ricompensa era l’esposizione mediatica,” secondo Keller. Ma la personalità paranoica di Assange sembrava, dapprima di rado, poi con sempre maggiore frequenza, guidare le sue scelte e aumentare la sua diffidenza verso i giornali con cui collaborava.

Keller scrive di frequenti telefonate ricevute da Julian, che gli contestava alcuni articoli su WikiLeaks che non gli piacevano. Quando venne pubblicato un profile su di lui, Assange lo chiamò infuriato, definendo il pezzo una “diffamazione”. Il successivo archivio, gli embassy cables, venne consegnato al Guardian in ottobre, ma non al NYT. Quando il Guardian decise di passarlo al quotidiano newyorchese con cui aveva collaborato fino ad allora, Assange “fece irruzione” nell’ufficio del direttore Alan Rusbridger seguito da due avvocati, minacciando ritorsioni legali. Era il primo giorno di novembre.

In otto ore di discussioni, ha scritto ieri Rusbridger, si riuscì a calmarlo e a convincerlo a mantenere il gruppo di lavoro così com’era. Ma i problemi non erano finiti. Assange tentò più volte di imporre alle testate di non dare spazio alle notizie del processo a suo carico, o di qualunque altro tema che non fossero i documenti. Questi “tentativi di controllo”, come li definisce Rusbridger, non fecero altro che aumentare le divergenze. “Dei continui messaggi criptati non sostituiscono un dialogo faccia a faccia,” scrive il direttore del Guardian.

“Quando i rapporti tra il NYT e WikiLeaks erano burrascosi”, scrive Keller, “almeno tre persone del progetto rilevarono attività inspiegabili nelle loro email, tali da far pensare a qualcuno che fosse entrato nei loro account”. Intervistato domenica dall’Observer, Assange rispedisce le critiche al mittente, giudicando “grottesco” l’editoriale di Keller, e accusando il Guardian di “aver pubblicato un libro per auto-giustificarsi, invece di andare avanti a scrivere sui documenti ricevuti”.

“Per attaccare un’organizzazione, devi attaccare la sua leadership. Come con le dozzine di falsità fabbricate su di me”. Un Peter Pan della libertà di espressione, paranoico e da prendere con le pinze. Un abile stratega, che per eludere i controlli ricorre tanto a messaggi criptati come a semplici travestimenti. Questo è il ritratto complesso e ambivalente di Julian Assange secondo chi ha lavorato con lui per mesi. Assange ha aperto un forziere di inestimabili informazioni, ed era disposto a dividerle con i media. Un’occasione da una vita per il giornalismo mondiale, che sembra però compromessa. Almeno per ora.

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