Da due anni in qua, il fuoco amico ne uccide più del fuoco nemico, in Afghanistan e in Iraq: non sulla linea del fronte, dove l’errore è in agguato, ma lontano dal fragore dei combattimenti, nel buio della propria camerata, nel profondo del proprio animo, dove la paura e il senso di colpa, l’ansia e l’angoscia, non ti lasciano scampo.

Nel 2010, i militari americani in servizio permanente effettivo morti suicidi sono stati “almeno 468”, contro i 462 complessivamente caduti in azione, senza contare incidenti e malattie. E, nel 2009, i militari suicidi erano stati 381, anche allora un po’ più dei caduti in azione. I suicidi sono aumentati di circa un quarto, nell’anno più cruento in assoluto per le truppe al fronte in Afghanistan dall’inizio del conflitto l’8 ottobre 2001. I dati li prendiamo da un articolo di John Donnelly, su Congress.org, il sito di CQ Weekly, pubblicazione specializzata nel seguire i processi decisionali del Congresso.

“Del problema dei suicidi in uniforme, senatori e deputati degli Stati Uniti si sono occupati a più riprese”. Donnelly ritocca un po’ al rialzo, in base a proprie ricerche e valutazioni, i numeri ufficiali delle Forze Armate, che nel 2010 situano i suicidi a 434. Il giornalista spiega perchè le cifre ufficiali non sono affidabili al cento per cento e peccano per difetto, non certo in eccesso: le statistiche non sono uniformi e talune strutture militari sono riluttanti a riferirle. E poi c’è chi non conta i soldati che si suicidano dopo essere stati congedati, ma per gli strascichi che le missioni di guerra hanno lasciato dentro di loro. E, ancora, gli uomini della Guardia Nazionale e della riserva vanno contati solo quando si suicidano durante le fasi di servizio o sempre?

Al di là del modo di compilare le statistiche, però, l’aumento del numero dei suicidi è una misura dello stress che dieci anni di guerre ininterrotte, e circa 7.500 caduti, ma anche centinaia di migliaia di nemici eliminati e “vittime collaterali”, cioè civili uccisi, hanno accumulato sui militari americani. Lo si vede al cinema, ma lo si misura pure nella realtà di tutti i giorni.

E non basta a lenire l’ansia sapere, o leggere, che a Kabul il presidente Hamid Karzai ha finalmente insediato il Parlamento; o che a Washington il presidente Barack Obama ha confermato, nel discorso sullo Stato dell’Unione , che il ritiro delle truppe comincerà a luglio. Il suicidio dei soldati, quasi sempre, non è un modo per scappare dall’Afghanistan, o da dove si combatte, ma per scappare da se stessi, dopo essere stati dentro quella violenza, averla subita e averla imposta. La guerra uccide anche chi non la combatte più.

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