Oggi pubblico le motivazioni dello sciopero generale del 28 gennaio secondo Stefano d’Errico, segretario nazionale dell’Unicobas

Ora tocca a Cassino. L’attacco contro i diritti dei lavoratori colpisce anche le rappresentanze: le sigle non firmatarie non potranno eleggere delegati nell’azienda. Perciò, lo sciopero indetto dalla Fiom nel settore auto (colpevolmente non generalizzato dalla Cgil) deve essere esteso.

La Confederazione Italiana di Base Unicobas, ha proclamato per il 28 gennaio uno sciopero generale intercategoriale e sarà presente in molte piazze d’Italia. Occorre riflettere sulle analogie che accomunano il mondo del lavoro. Come si tenta d’imporre ritmi logoranti a Mirafiori, così gli insegnanti sono oberati di incarichi e messi in condizioni sempre più disagevoli, in diretta conseguenza degli oltre centomila tagli che hanno colpito i precari. Come agli operai di Mirafiori si propongono meccanismi «premiali» arbitrari e discrezionali, così nelle scuole vengono introdotti criteri di valutazione del «merito», con il malcelato intento di incentivare la rivalità tra colleghi, mortificare la professionalità, limitare la libertà d’insegnamento.

Non siamo però disposti a passare sotto silenzio le responsabilità dei sindacati cosiddetti maggiormente rappresentativi, Cgil compresa. La loro prassi ha portato Sergio Marchionne a puntare su accordi unilaterali. Sia nel settore pubblico sia in quello privato, sono invalse, negli ultimi venti anni, limitazioni pesanti al diritto di sciopero al riconoscimento delle organizzazioni sindacali non firmatarie di contratto, con il placet dei sindacati confederali.

La prima preoccupazione tattica dei vecchi carrozzoni sindacali è stata per anni quella di eliminare il sindacalismo di base. Grazie a «governi amici» hanno ottenuto che i diritti sindacali venissero accordati solo alle organizzazioni firmatarie di contratto, ma era evidente che in tal modo si sarebbe data in mano ai padroni delle ferriere l’arbitrio di uno strumento micidiale per legittimare solo sindacati «ragionevoli» come Fim-Cisl, Uilm, Ugl e Fismic nel caso Fiat. La centralità degli accordi introduce la prassi del ricatto: ricatto verso il sindacato, ricatto verso i lavoratori (come Pomigliano e Mirafiori insegnano).

Si aggiunga che l’Italia è l’unico paese europeo che consente al datore di lavoro di conoscere il sindacato di appartenenza del dipendente attraverso la gestione della ritenuta alla fonte e di controllare così anche l’economia delle organizzazioni dei lavoratori. È quindi la parte padronale a certificare la rappresentanza, valutata principalmente con le iscrizioni invece che solo tramite il voto come in Francia e Spagna.

Le organizzazioni sindacali tradizionali hanno fatto approvare per il pubblico impiego un meccanismo elettorale indegno, costruito solo sull’elezione di delegati a livello di singolo posto di lavoro. La rappresentanza complessiva delle organizzazioni sindacali si determina quindi, arbitrariamente, senza elezioni su lista nazionale.

È una democrazia solo apparente: si vota, ma chi presenta meno liste ottiene necessariamente meno suffragi. Accade matematicamente che i nuovi sindacati non possano raggiungere le percentuali di rappresentatività stabilite dalla legge perché è loro interdetta la campagna elettorale, né hanno modo di trovare nell’unità produttiva i propri candidati. Come potrebbero, senza poter tenere assemblee in orario di servizio con i lavoratori? I rappresentanti di queste organizzazioni non godono neppure di un’ora di permesso sindacale e qualora riuscissero ugualmente nella mission impossible di presentare ovunque le liste (nella scuola, per esempio, in diecimila istituti), non potrebbero comunque far conoscere il proprio programma. Nel settore pubblico non è consentito neppure che il sindacato paghi direttamente permessi e aspettative, mentre le organizzazioni tradizionali hanno più di 5 mila «distaccati» retribuiti dallo stato. Inoltre, avendo naturalmente una percentuale di iscritti inferiore rispetto a sindacati che esistono da cinquant’anni, le sigle di base dovrebbero raggiungere immediatamente il 9-10 per cento dei voti, su un totale pari a quel 70 per cento di lavoratori che si reca alle urne.

Va poi sottolineato che le Confederazioni tradizionali si sono garantite comunque la rappresentanza sindacale, anche a voti zero. Infatti, anche se non ottenessero neanche un suffragio, rientrerebbero ugualmente nei canoni stabiliti per legge, che prevedono il raggiungimento del 5 per cento facendo media fra voti e deleghe sindacali. Cgil, Cisl e Uil hanno tutte raggiunto in più di cinquant’anni almeno il 10 per cento dei sindacalizzati (che sono il 35 per cento dei lavoratori attivi a livello nazionale), e quindi posseggono a priori il 5 per cento «di media» richiesto.

Sarebbe come se, per le elezioni politiche, i partiti dovessero presentare una lista con propri candidati in ogni seggio elettorale, non avendo nel contempo alcun diritto di propaganda. Aggiungiamo che grazie al marchingegno dell’incrocio fra voti e iscritti orchestrato per i sindacati, anche raggiungendo l’8 per cento (il doppio dei voti dell’Udc), resterebbero sia fuori dal parlamento sia dai consigli regionali, provinciali, comunali e di municipio. Infatti il criterio adottato dalla legge vigente sulla rappresentanza sindacale non prevede soglie di rappresentatività di livello locale (neppure di tipo regionale), né elezioni decentrate. I sindacati di nuova istituzione vengono così lasciati fuori anche dalla contrattazione effettuata sul piano locale (di scuola-unità produttiva, provincia, regione) pur se rappresentano a quel livello, come capita spesso, la maggioranza relativa dei sindacalizzati di un dato settore. Tutti si riempiono la bocca di «federalismo», ma il federalismo è espunto dalla democrazia del lavoro (con buona pace dei secessionisti «padani» al governo).

Dulcis in fundo, le norme impongono l’appartenenza al Cnel per poter operare iscrizioni fra i pensionati. In tal modo Cgil, Cisl, Uil (e sindacati poco rappresentativi come Ugl, Cisal e Confsal), solo perché introdotte nel Cnel dai loro partiti di riferimento, hanno il monopolio del personale in quiescenza che rappresenta più del 50 per cento dei loro affiliati. Io stesso, in qualità di segretario nazionale dell’Unicobas, al termine dell’attività lavorativa, non potrò iscrivermi al mio sindacato. E la chiamano democrazia! I sindacati devono essere indipendenti: questa non è che partitocrazia sindacale.

Proprio la Fiom ha fatto recentemente presentare al Senato dall’Italia dei valori un disegno di legge estremamente carente in materia di democrazia sindacale, volto all’intero mondo del lavoro ma mero ricalco della legge vigente nel settore pubblico sin qui illustrata, introducendo di nuovo e positivo solo lo strumento del referendum per validare i contratti (e qualcosa di simile a questa proposta è oggi caldeggiata anche da Susanna Camusso).

Riflettano i lavoratori: proprio la Fiom, contro la quale oggi si scatena la nemesi di norme dalla stessa apprezzate sino a ieri, insiste su di un meccanismo iniquo perché pensa di non doverne fare le spese in futuro come invece sta succedendo proprio in queste ore sulla questione della firma dei contratti! Infatti chi, se non la Fiom stessa, potrebbe impugnare un contratto tramite un referendum, visto che alle altre sigle è interdetto persino il diritto d’assemblea? È proprio sicura la «democratica» dirigenza dei metalmeccanici Cgil che un giorno non troppo lontano non le capiti un’esclusione radicale dai diritti sindacali come succede quotidianamente dal 1997 (data d’approvazione della legge truffa, votata all’epoca anche da Nichi Vendola e Rifondazione comunista) al sindacalismo di base?

La verità è che non si possono usare «due pesi e due misure»: o si è per la democrazia sindacale, davvero, senza se e senza ma, o si è contro. O si è con i lavoratori e con il loro diritto d’esprimersi anche tramite il pluralismo sindacale, o si è contro la democrazia del lavoro, e in tal caso ne approfitta il Marchionne di turno.

Per questi motivi, risulta del tutto evidente la differenza motivazionale ed etica dello sciopero del 28 gennaio. L’Unicobas sciopera per i diritti di tutti, a fianco della Fiom anche se questa ha fortemente contribuito, con Cisl e Uil, a ridurre come descritta la democrazia sindacale del paese. Invece la Fiom sciopera «giocoforza», perché la sua stessa politica l’ha stretta in un angolo. L’Unicobas sciopera per l’unità del mondo del lavoro e una nuova stagione dei diritti: la rappresentanza sindacale va calcolata con il voto e solo con il voto, senza improponibili «medie» e soprattutto a partire da elezioni nazionali degne di questo nome.

Imponiamo al mondo dei partiti (che hanno fissato il tetto per raggiungere il parlamento solo del 4 per cento e con l’1 per cento raggranellano i fondi del finanziamento pubblico) regole per una vera democrazia del lavoro. Si facciano finalmente vere elezioni, anche a livello regionale, provinciale e di singola unità produttiva! In tal modo, gli stessi iscritti a Cgil, Cisl e Uil sarebbero meglio rappresentati, potendo eleggere direttamente i delegati alle trattative contrattuali, nazionali e decentrate. Inoltre si liberalizzino le iscrizioni dei pensionati e si facciano referendum sui contratti nazionali di lavoro.

L’Unicobas ha presentato da quasi due anni alla Camera, tramite i deputati IdV Zazzera, Borghesi, Di Giuseppe, Favia, Messina, una proposta di legge in tal senso: quella è l’unica via d’uscita. Per quanto attiene all’IdV, che si ritrova con disegni di legge diversi nei due rami del parlamento, decida finalmente come renderli omogenei sul piano della democrazia effettiva.

Stefano d’Errico, segretario generale dell’Unicobas

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