NEW YORK – Non si può dire che il 2010 sia stato un anno roseo per il dialogo tra Pechino e Washington. Gli occhi del mondo erano puntati contro la repubblica popolare, colpevole di violare i diritti umani e reprimere dissidenti come Liu Xiabao, premiato con il Nobel per la pace. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama – anche lui premiato con lo stesso Nobel, l’anno prima – ha ripetuto più volte che la repubblica popolare deve cambiare rotta.

Durante la visita a Washington il suo omologo cinese, Hu Jintao, ha concesso qualche apertura, parlando di “universalità dei diritti umani”, anche se devono essere tenute in considerazione le “differenze nazionali”. La stessa dichiarazione congiunta approvata dai due leader alla fine dell’incontro bilaterale recita che “Usa e Cina hanno ribadito il proprio impegno alla promozione e alla protezione dei diritti umani, pur continuando ad avere divergenze significative su questi temi”.

Qualche passo avanti, comunque, è stato fatto, almeno secondo la stampa americana, che archivia il 2010 come annus horribilis dei rapporti tra Cina e Stati Uniti e sentenzia che il 2011 si apre sotto auspici migliori. “Per la prima volta da mesi, sembra che i due leader abbiano almeno cominciato a leggere lo stesso libro”, sottolinea un’analisi del New York Times. Per la prima volta, ad esempio, Hu ha espresso preoccupazione per i programmi nuclearei della Corea del Nord, solitamente difesa da Pechino. Comunque, la lista dei desiderata, sia per gli statunitensi sia per i cinesi, rimane lunga. Gli americani, da parte loro, vorrebbero che la moneta cinese, lo yuan, fosse rivalutata, e vorrebbe anche più rassicurazioni sugli arsenali militari della repubblica popolare. Pure in questo caso la dichiarazione congiunta promette cooperazione, ma tutti sanno, su entrambe le sponde del Pacifico, che sarà difficile passare dalle parole ai fatti.

Non a caso, durante gli incontri tra Hu e i parlamentari di Washington, sono stati pacatamente sollevati i diversi nodi. E i leader delle due camere – rispettivamente Harry Reid e John Boehner – hanno garbatamente rifiutato di partecipare alla cena in onore del presidente cinese, bollato dal presidente del Senato come “un dittatore”. Nella pagina degli editoriali, Nicholas Kristof – un esperto di affari cinesi che ha vinto il premio Pulitzer scrivendo dei fatti di Tienamen Square nel 1989 – evita giudizi affrettati, dipingendo un quadro complesso che si spinge a fare previsioni per i prossimi due anni, quando entrambe le potenze decideranno il loro nuovo leader.

“Qui in America – si legge nell’articolo – le opinioni sulla repubblica popolare si dividono tra coloro che abbracciano il panda (“La Cina è fantastica!) e coloro che lo aggrediscono (“La Cina è il male!”), anche se la verità si trova tra questo ying e questo yang. Uno degli esempi che fa Kristof riguarda il ruolo della Cina nell’appoggiare “stati canaglia” come Corea del Nord, Iran, Myanmar, Sudan. La repubblica popolare, secondo Kristof, appoggia questi Paesi “molto meno rispetto a ciò che credono gli americani”. Non solo, “negli ultimi tempi (Pechino) ha giocato un ruolo importante sia in Sudan sia in Corea del Nord”.

L’editoriale, però, si chiude con una cupa profezia. Si ricorda un recente discorso di colui che sarà, con ogni probabilità, il futuro presidente Xi Jinping, che ha usato toni alquanto aspri contro gli americani, accusati di aver usato armi batteriologiche durante la guerra coreana del secolo scorso. “Per la verità – scrive Kristof – Xi sembra ammirare gli Stati Uniti: ha appena spedito la sua unica figlia ad Harvard, ma forse sente il bisogno di unirsi ai nazionalisti della repubblica popolare”. Come lui, a Pechino sono in molti a schierarsi contro Washington, tanto che il giornalista prevede la prossima ascesa dei “falchi” d’Oriente.

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