Nel post precedente ho portato argomenti per sostenere che l’attacco di Marchionne alla Fiom ha natura espressamente politica: si muove sul piano aziendale per cancellare il sindacato conflittuale e sul piano generale per far accettare come indiscutibile la supremazia dell’economia sulla politica. Da questo punto di vista, impedire ai lavoratori di autorappresentarsi nei reparti con libere elezioni e di ricorrere al diritto individuale di sciopero, è un’azione propedeutica all’espulsione definitiva della Costituzione dalle fabbriche. Nessun patto – tantomeno quello di democrazia sociale cui si ispira la Carta Italiana – può essere tollerato da un’ideologia eversiva che si fonda sul primato assoluto dell’impresa globale sul lavoro, a prescindere dalla storia, dalla cultura e dal contesto in cui si applica.

Mi domando: a chi tocca fare un bilancio ampio costi-benefici del ricatto cui sono sottoposti i lavoratori torinesi, chiamati a barrare una casella sulla scheda da cui dipenderà l’imposizione di nuovi rapporti di forza da estendere all’intera società nazionale? Non vorrei esagerare, ma trovo un po’ codardo il comportamento dell’“uomo dell’anno” quando prescrive che l’investimento e i diktat sulle condizioni di lavoro facciano un tutt’uno, giocando così una partita truccata, da cui sono esclusi a priori i giocatori di diritto. In effetti, la gran parte delle rappresentanze degli interessi sociali, civili, ambientali – che saranno condizionati dall’esito obbligato del referendum – non partecipano in alcun modo alla decisione che verrà ratificata a metà gennaio dai cassintegrati(!) di Mirafiori.

È bene che queste si sentano comunque coinvolte, innanzitutto sostenendo la Fiom che vuole riaprire la partita e partecipando alla riuscita della giornata di mobilitazione del 28 gennaio. Una giornata campale, che potrà dare la misura della parzialità degli interessi che stanno dietro Marchionne. Di questo vorrei parlare, perché troppo poco si è discusso di come un’uscita dalla crisi attuale con tali metodi metta a repentaglio, se applicata su scala mondiale, sia la sopravvivenza della convivenza civile che i limiti biofisici del pianeta. Questo perché ancora una volta le scelte politiche sono a vantaggio della voracità dei rappresentanti di un capitalismo finanziario anonimo – che “accumula ricchezza e distribuisce povertà” (Ratzinger!) – a scapito di una collettività che dovrebbe semplicemente prostrarsi al loro servizio.

Non ci si può limitare a pretendere nuovi paradigmi per affrontare una crisi definita epocale. Né tanto meno poi ripiegare senza conflitto ad accettare l’emergenza che ci viene propinata in casa. In questo senso, è intollerabile che non solo questo governo, ma la maggioranza delle forze politiche, gran parte del mondo sindacale e chi orienta l’opinione pubblica, consegnino il timone delle politiche industriali e il futuro dei diritti del lavoro dipendente di un Paese di grande rilievo europeo ad un manager che ha come unica bussola il successo che il mercato decreterà alla sua avventura.

Allora, che fare oltre a resistere? Penso che l’arroganza e l’inadeguatezza delle nostre classi dirigenti possa mascherare un declino, ma non impedire a una resistenza ostinata di tramutarsi in un’alternativa desiderabile. Da qui traggo la certezza che non accettare il terreno dei ricatti di Pomigliano e Mirafiori – qui occorre stare da subito con Landini “senza se e senza ma” – sia la condizione per tracciare un percorso di proposta. Un progetto che parta dai poteri oltre che dai diritti, dal piano strategico d’impresa mai comunicato finora, dai nessi tra finalità della produzione, organizzazione del lavoro e qualità sociale e ambientale che ne derivano. Tutti temi da cui Marchionne e la sua “claque” vogliono distogliere l’attenzione, costringendoci a una battaglia difensiva e forse disperata. Ma anche temi che la Cgil, il sindacato oggi da battere per la sua natura confederale e non aziendalista, non ha mai cessato di elaborare per non subire passivamente gli effetti della globalizzazione e per non essere costretta a scegliere tra precarietà e disoccupazione.

A proposito del referendum, sono molti coloro che gradirebbero una “firma tecnica” che giustamente Cofferati giudica “surreale” per un accordo dove il sindacato è scelto dall’azienda stessa. Pertanto: se non si firma? Ecco, a mio avviso, alcuni scenari possibili. I rapporti tra libertà-politica, libertà-civile e libertà-sociale posti alla base, questi sì, di un’ideologia che è quella della nostra Costituzione, prevedono poteri anche nei luoghi di lavoro, che vanno oltre i diritti individuali e che senza il sindacato dei lavoratori non si potrebbero esercitare.

Il capitalismo di Marchionne vorrebbe abolire questo potere conquistato in anni di lotte e di prove democratiche ed escluderlo a priori e definitivamente, abbandonando, se occorre, il sistema confindustriale che lo vincola. La rinuncia a questo ruolo da parte del sindacato costituirebbe un’uscita di scena senza ritorno, una trasformazione della confederalità e dell’autonomia in funzioni pro-azienda, come il controllo delle assunzioni, il raffreddamento complice del conflitto, l’applicazione burocratica dell’organizzazione del lavoro non contrattata. Il controllo democratico dell’economia sarebbe negato nel suo snodo fondamentale a contatto diretto con le forme di produzione. Una negazione tanto più gravida di conseguenze nella fase cruciale in cui si rende necessaria la riconversione ecologicamente sostenibile del settore industriale.

Meglio allora tenere la Fiom fuori dalla trappola e riorganizzare da lì tutte le alleanze necessarie a riposizionare dentro i luoghi di lavoro un diritto che non si può pretendere senza potere. Un atto, quello deciso con lucidità dall’organizzazione di Landini, che allude a quale possa essere il ruolo dei lavoratori organizzati nel perseguire con successo obiettivi di cambiamento: più giustizia sociale, secondo la tradizione del movimento operaio, ma anche giustizia ambientale nell’esigere modalità e finalità di produzione in maggiore armonia con la natura.

Qui siamo al piano strategico della Fiat che, secondo Sacconi, è offensivo richiedere al suo Ad, visto che lo si dovrebbe prendere in parola e che l’unica responsabilità sociale l’avrebbero i lavoratori che gliene chiedono conto. Ma chi meglio del sindacato è titolato a esercitare la sua autonomia culturale e politico-sociale per contribuire all’elaborazione e alla riscossione del piano d’impresa? Soprattutto in una situazione dove le incognite sono tantissime: dalla cattura di Fiat da parte di Chrysler, allo spezzatino delle produzioni del settore auto, all’acquisizione e vendita di marchi (Alfa Romeo in particolare, che in questa situazione sarebbe un gran bene se fosse prelevato e rivalutato dalla Volkswagen!). Come pure l’impatto ecologico delle produzioni, in una fase in cui tutta la ricerca investe in quella direzione e si parla di mobilità sostenibile addirittura come alternativa all’auto individuale. A questo proposito, qual è il senso della messa in produzione a Torino della Jeep e della Panda, due modelli che probabilmente Obama per primo non desidererebbe si producano a Detroit perché di nessun contributo alla “green economy”?

Tutto fa pensare che sia l’intera società a rimetterci. Questo perché Marchionne vuole privare i lavoratori di un ruolo partecipativo-conflittuale e relegarli a terminali di decisioni in assoluta continuità con le scelte che hanno provocato la crisi in cui ci dibattiamo. Se questo accadesse, cambierebbe natura anche il sindacato e la Cgil in particolare. Perché la rinuncia alle elezioni dei rappresentanti lo priverebbe della conoscenza diretta dei processi, che può venire solo da uno scambio continuo con i delegati in produzione. Inoltre sarebbe interrotta quella relazione fra il sindacato-istituzione e il sindacato organizzatore diretto delle lotte che è stata la grande innovazione democratica iniziata dal ’69. Lotte indispensabili per chi ha a cuore l’avvenire industriale del Paese e l’avvio di una riconversione che assicuri occupazione buona e rigenerazione delle risorse dei territori in cui viviamo. Unica soluzione? Fare cerchio intorno alla Fiom!

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