Nella comicità televisiva c’è modo di trovare materia e antimateria. Dove la prima sostanza non è detto che sia migliore dell’altra, e viceversa. Prendi il caso di Checco Zalone, comico, imitatore, pugliese, ragazzo prodigio, trascinatore di pubblico e botteghini, afferralo così come sempre più spesso s’affaccia dall’abbaino di questo o quell’altro siparietto a reti (più o meno) unificate, e appena ce l’hai in pugno, già che ci sei, rifletti un po’ sul suo conto. Ti fa ridere, ‘sto Zalone? Sì, ti fa ridere, ‘sto Checco pugliese. Molto. Di un riso immediato, cioè d’istinto. Come se lui, l’uomo, il ragazzo, il pugliese riuscisse a sommuovere la parte più sensibile dei recettori intestinali preposti alla comicità. E non c’è neppure bisogno di citare il saggio del filosofo Henri Bergson sul “riso” per scoprire che accanto al talento, ai tempi, alla richiesta di complicità nel suo caso c’è da rilevare il manuale standard del mestiere: comico che chiama complicità. Sempre osservando Zalone in televisione durante lo spolvero festivo a ridosso dei cinepanettoni, almeno  all’inizio ho pensato che la “volgarità”, già, l’uso del benefico turpiloquio, sì, le parolacce che accennano alla morfologia umana con annessa autoclave sessuale, fosse un fatto rivoluzionario, liberatorio, da proteggere con una raffica di applausi. Dici? No, alla fine però mi sono reso conto che così non è. Nulla è più qualunquista (perdonate lo schematismo linguistico, ma non so trovare altre parole) e auto assolutorio per il potere, anzi, per il Palazzo della stupidità, di certi dispositivi comici. Ridi ridi e ancora ridi trattenendo la mano sul pacco, e un istante dopo è tutto come prima. I tuoi peggiori dirimpettai sono ancora lì, a ridere anche loro. Insomma, Zalone è materia o antimateria?

Sulla riva opposta, a debita distanza dallo scoglio del pugliese, sere fa ho intravisto invece Gene Gnocchi, altra storia, altra cultura, altro sguardo, altro mondo. L’ho visto esattamente su Rai3 con quel suo “L’almanacco del Gene Gnocco”, dove si fa il verso a un format-dagherrotipo della televisione d’altri tempi, quando le rubriche d’informazione funzionavano ancora a carbone. Lì Gnocchi, a suo modo, mette in atto una doverosa critica dell’esistente (televisivo), con la precisione di un rapidograph. Notevole il siparietto dedicato a coloro la cui presenza nei media risponde alla categoria dell’assurdo, della non-necessità. Con un’impagabile Flavia Vento a farsi dire in faccia ciò che molti pensano del suo non-talento. E lo stesso plauso dovrebbe riguardare quell’altro momento in cui sempre Gnocchi rileva i “reati di Dell’Utri della settimana”. Non importa che la macchina sia sempre perfettamente registrata, ciò che va apprezzato è il tentativo di compiere uno sforzo di qualità dell’intelligenza, di igiene della comicità, e in questo Gnocchi risulta perfetto, l’uomo della provvidenza anti-retorica, doverosamente lontano dalla banalità veltroniana. Peccato che, tornando all’interrogativo su materia-antimateria, su tutto aleggi il sospetto che quell’altro, sì, il Pugliese, risulti invincibile nei numeri.

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Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2010

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