Primo dato. Quest’anno i capital gain di Marchionne sulle sue stock option Fiat potranno raggiungere i 120 milioni di euro. La tassa applicata a queste plusvalenze è del 12,5 per cento (breve inciso: in Spagna è del 15, in Francia del 27, in Germania è oltre il 20). Gli operai sulla cassa integrazione e sui loro salari pagano in media un’Irpef del 25 per cento. Non c’è quindi solo un problema dei paesi emergenti più competitivi del nostro in campo di produzione manifatturiera. C’è in atto, in realtà, una redistribuzione della ricchezza al contrario, di chi la crisi la paga e di chi sulla crisi specula e ci fa i soldi. Se poi è evidente dalla storia Fiat che: a) finanziare l’innovazione, defiscalizzare gli oneri sociali o applicare incentivi all’auto da parte dello Stato non ha mai, assolutamente mai, ricevuto in cambio i promessi investimenti privati, b) gli Agnelli i soldi da investire in prodotto se li sono bellamente portati all’estero (per esempio, in un trust del Liechtenstein); c) tutti sanno che l’operazione Chrysler non è stata una conquista di Marchionne ma una mossa disperata: la Fiat stava fallendo, Chrysler pure, i soldi di Obama e il ricatto occupazionale hanno fatto il resto. Se tutto questo è chiaro allora dovrebbe essere plausibile ipotizzare che Marchionne non innoverà il prodotto, non rischierà da imprenditore: sta solo rastrellando soldi pubblici per consegnare alla Chrysler quel che resta di Fiat. E sul punto di restare o abbandonare l’Italia, è altrettanto plausibile sospettare che la decisione di andarsene è già presa. Il quesito non è sul se, ma sul quando. Dipenderà da quanti diritti riuscirà a demolire: in Italia potrebbero rimanere aperte alcune aziende che assemblano auto americane. Immerse in un deserto sociale.

Secondo dato. Fiat Group Automobiles, in tutto il 2010, ha immatricolato 589 mila vetture rispetto alle 707 mila del 2009, con un calo dei volumi pari al 16,7 per cento. Volkswagen, Renault, Citroen, Bmw vendono e si espandono sui mercati, Fiat no. Le sue macchine non tirano da anni, c’è poco da fare. Il problema quindi non sta nella “fabbrica” ma nel “prodotto”.

Terzo dato. I numeri ufficiali dicono che il costo del lavoro non è il cappio al collo della Fiat. Posto che i nostri salari sono i più bassi del mondo occidentale la componente salariale non pesa più dell’8 per cento sul prodotto finale. Il minacciato trasferimento in Serbia, com’è noto, sarà pagato per tre quarti dall’Unione europea e per il resto da incentivi fiscali del governo di Belgrado. Quello stabilimento non costerebbe nulla alla Fiat. Ed è questo che Marchionne vorrebbe dall’Italia. “Resto qui solo se pagate tutto voi”. Questa è la posta in palio nel referendum del 13 e 14 gennaio fra gli operai Fiat: chi voterà Si, sa che l’intero paese (compresi tutti quei lavoratori a cui sarà applicata in futuro la “filosofia” Mirafiori) sarà costretto a versare la sua quota a Marchionne. Lui che non rischia, non investe, non innova, e usa biecamente la paura pur di ottenere l’assegno di Stato.

Quarto dato. L’assenteismo in Mirafiori è nell’ordine del 6 per cento. Dicono i sindacati che è fisiologico. La questione, sottovalutata da tutta l’opposizione politica e dalla stessa Cgil, è che questa campagna di distruzione dei diritti si regge sul falso, anzi su una sequenza di falsi, e su qualche imbarazzo a dire fino in fondo la verità. Uno per tutti riguarda la salute dei lavoratori e come si lavora in Fiat, le malattie professionali e quanto sono diffuse (anche quelle non certificate come tali), quanto sia attualmente insopportabile l’organizzazione del lavoro e insufficienti le pause. “Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar” dice una vecchia canzone: le ore diventeranno dieci, le pause drasticamente ridotte, la possibilità di prendersi un giorno di riposo (curarsi è anche questo) usando la malattia diverrà impraticabile.

Quinto dato. Quel che l’accordo di Mirafiori toglie alla democrazia sindacale e il ricatto che la insidia basterebbe a motivare un sonoro no da parte dell’opposizione. Quel che toglie alla democrazia italiana, proponendo di vietare lo sciopero e la rappresentanza sindacale a chi non aderisce all’accordo, è inequivocabilmente il diritto di parola. Eppure l’opposizione si fa in pezzi. E persino il governo sembra più subire che gestire il grande pasticcio di Marchionne. Segno che la politica va a rimorchio dell’economia e che questa classe dirigente, sulla crisi italiana, non ha proprio più niente da dire. Il rischio è altissimo.

Ecco perchè anche noi giornalisti dovremmo schierarci, darci da fare per ribaltare le menzogne che platealmente vengono dette e reiterate, parlare, convincere, manifestare con la Fiom il 28 gennaio. Il paese migliore deve stabilire, per così dire, una connessione sentimentale con gli operai che andranno a votare il 13 e 14 gennaio. Sentimentale nel senso di comprendere insieme la posta in gioco. Loro voteranno anche per tutti gli italiani, questo è chiaro. Un paese solidale potrebbe contribuire a farli sentire più liberi nel voto: di tutta la libertà possibile hanno bisogno.

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