“La rapida crescita della Cina è stata raggiunta a costi estremamente alti e solo le future generazioni ne sapranno valutare il prezzo reale”. La frase è chiara e nel dibattito attuale non suonerebbe nemmeno tanto sorprendente. Se non fosse che a pronunciarla o, per meglio dire, a vergarla nero su bianco, non sia stato un analista occidentale, uno speculatore statunitense o un oppositore del regime di Pechino, quanto piuttosto uno che in quello stesso regime vantava e vanta tuttora una posizione di tutto rispetto. Sono concetti forti quelli espressi da Yu Yongding, presidente della locale Society of World Economics, ex membro della Peoples Bank of China e autore, sull’edizione di ieri del quotidiano China Daily, di un editoriale a sostegno di una tesi a dir poco lapidaria: alle condizioni attuali il modello di sviluppo dell’economia cinese resta pieno di criticità e di punti deboli. In sintesi, semplicemente insostenibile.

L’uscita di Yongding, ovviamente, ha già catturato l’attenzione degli osservatori internazionali, gli stessi, per intenderci, che da troppo tempo sembrano limitarsi ad assumere l’espansione di Pechino come un fenomeno assodato chiedendosi non più “se” ma più semplicemente “quando” possa avere luogo lo scontato sorpasso ai danni degli Stati Uniti. L’economia cinese, ha ricordato il Financial Times è cresciuta del 9,6% su base annuale nel corso dell’ultimo trimestre pagando però un prezzo non indifferente: tra ottobre e novembre l’inflazione è aumentata ulteriormente (dal 4,4 al 5,1%) alimentando crescenti dubbi sull’opportunità della “sacra” politica di sostegno all’export che si basa da sempre sulla debolezza della moneta locale. Un problema chiave, lascia intendere l’editoriale.

“Con i valori del commercio nel suo complesso (import più export, ndr) e delle esportazioni che eccedono rispettivamente il 30 e il 60% del Pil, l’economia non può più continuare a dipendere dalla domanda esterna per sostenere la propria crescita – scrive Yongding -. Sfortunatamente con un settore delle esportazioni che impiega ormai milioni di lavoratori, questa dipendenza è diventata strutturale”. Il che, in altre parole, significa che qualsiasi progetto di riduzione della stessa finisce per esulare dalla semplice macroeconomia o, per meglio dire, dalla politica monetaria in senso stretto. Se a ciò si aggiungono le perplessità sulle scelte dei governi locali, responsabili di massicci investimenti in un settore immobiliare ormai apertamente “in bolla”, i timori di un’espansione priva di coordinamento e, in definitiva, magniloquente quanto fragile diventano sempre più concreti.

Non è un mistero che in Occidente qualcuno abbia già pensato alla scommessa della vita. Meno di un mese fa, il numero uno del fondo speculativo statunitense Corriente Advisors Mark Hart ha chiamato a raccolta i propri investitori prefigurando nel prossimo futuro il collasso dell’economia cinese. A sostegno della tesi l’ipotesi che la crisi del debito pubblico in Europa, la presenza di tassi piuttosto bassi e una svalutazione forzata della valuta locale abbiano inevitabilmente gettato i semi delle bolle speculative in vari segmenti del mercato tra cui il settore dei materiali grezzi, l’immobiliare e il comparto finanziario. Alla faccia delle statistiche ufficiali diffuse dal governo di Pechino, ha sostenuto il finanziere, il Paese starebbe in realtà facendo i conti con un debito pubblico equivalente, come minimo, al 107% del Pil, un livello sei volte superiore rispetto alle ultime stime diffuse. Valutazioni che fanno paura visto che Hart, è opportuno ricordarlo, è uno che se ne intende: in passato aveva intuito in anticipo la crisi dei subprime Usa guadagnando milioni di dollari con le opportune scommesse ribassiste. Oggi pensa di fare lo stesso prendendo di mira il colosso cinese e puntando forte su quegli strumenti in grado di generare notevoli rendimenti in caso di collasso: credit default swaps e altri derivati utili alla causa, a cominciare dalle opzioni sui cambi e sui tassi di interesse.

Per invertire la pericolosissima rotta intrapresa dal Paese, sostiene Yongding, servono riforme diffuse e ad ampio spettro. Troppi, infatti, gli aspetti contraddittori che accompagnano l’espansione economica nazionale a cominciare dalla mancanza di innovazione – la Cina è ormai il principale produttore di automobili al mondo ma i modelli sviluppati dall’industria locale hanno un impatto trascurabile – per proseguire con la crescita delle diseguaglianze economiche e i danni dell’inquinamento. Leader mondiale degli investimenti “verdi”, il Paese sconta inoltre livelli di inquinamento spaventosi nelle sue città mentre tutti i maggiori fiumi, ricorda ancora l’ex operatore della Peoples Bank, sono ormai contaminati.

Problemi enormi, insomma, che dovrebbero condizionare l’agenda politica nazionale in vista degli imminenti cambi al vertice del Partito Comunista i cui quadri più anziani, a partire dal 2012, dovrebbero essere rimpiazzati da una nuova generazione di dirigenti. Alla lista dei problemi aperti, ovviamente, andrebbe aggiunta la questione “innominabile”, quella cioè che nessun Yaonding, ad oggi, può permettersi di sollevare in un editoriale o in un dibattito pubblico. Ma il tema dei diritti umani continua ovviamente ad esulare da qualsiasi programma di riforma. Per i policy maker cinesi, gli investitori e gli speculatori esteri, ovviamente, la cosa non sembra costituire un problema. Anche se per un miliardo e trecento milioni di persone, in definitiva, resta probabilmente il più grande di tutti.

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