Premessa: non voglio parlare di politica, ma di metodologia.

Non so se la decisione di Bersani e del Pd di aprire (per usare un eufemismo) al terzo polo sia corretta. Non so se sia la scelta giusta per il partito, non riesco a valutare se il partito, così, faccia il bene del Paese. Basta, però, leggere i commenti sul sito del Partito Democratico in commento alla proposta del segretario, sia nel giorno dell’intervista di Bersani a Repubblica, che il giorno dopo in seguito alle dichiarazioni rilasciate all’Unità, fino ai commenti recapitati direttamente a Bersani sulla sua pagina Facebook per capire che qualcosa non ha funzionato.

Sia chiaro: Bersani è il segretario di un partito eletto con le primarie, l’unico in Italia. E ha diritto a esercitare la sua leadership. Questo, però, non lo esime dalla possibilità (talvolta dall’obbligo morale) di confrontarsi con la ‘”base” quando giunge il momento di prendere decisioni che possono definire il profilo del Partito in modo decisivo. Per “base” si possono intendere molte cose: io penso ai circoli o almeno ai loro segretari, che Bersani aveva incontrato il 6 novembre a Roma, in un evento che aveva assai gratificato i militanti.

Ma poteva andar bene una consultazione anche più ampia, con i militanti o con gli elettori, che erano stati chiamati a raccolta in Piazza San Giovanni giusto sabato scorso, l’11 dicembre, tre giorni prima del voto di fiducia al governo Berlusconi. In verità, l’elettorato si sarebbe accontentato anche di una decisione presa in modo collegiale dopo la Direzione Nazionale del 23 dicembre.

Bersani ha tutti gli strumenti e le possibilità per non decidere da solo. È a capo di un partito che fa dell’assenza di leaderismo il suo caposaldo. Il Pd è l’unica forza politica rilevante che non porta il nome del suo capo all’interno del logo e ne fa un giusto, quasi romantico, motivo di vanto. Bersani ha vinto le primarie parlando del “partito di tutti” e in moltissimi ci hanno creduto.

Qualche segnale di omologazione allo stile politico degli altri si era già visto, in verità, nell’ultima campagna, “Rimbocchiamoci le maniche”, in cui Bersani era protagonista assoluto, il vero pezzo forte del messaggio, quasi contravvenendo ai suoi mantra. Ma la decisione di comunicare il futuro asse del Partito Democratico attraverso un’intervista è sconcertante, molto più della decisione politica.

Il popolo democratico non accetta questi comportamenti. Segue con favore il Pd nonostante tutto, perché è l’unica forza politica che continua a dare la sensazione che sia possibile discutere, confrontarsi, far emergere la propria idea. Proprio l’esistenza di quella promessa implicita tiene insieme una comunità. Proprio per il valore e la solidità di questa promessa, la reazione elettorale è stata devastante quando è stata disattesa: pensate a Renzi a Firenze nel 2009, Boccia in Puglia nel 2010 e Boeri a Milano un mese fa. Tre storie molto diverse tra loro accomunate da un unico filo conduttore: le vittorie e le sconfitte dipendono, prima di tutto, dalla capacità del gruppo dirigente di ascoltare gli elettori. Quando non c’è stato dialogo e ascolto, il Pd dei dirigenti ha sempre perso, il Pd degli elettori ha sempre inferto lezioni severissime.

Qualsiasi sia la decisione da prendere e ovunque si trovi la parte del giusto, il segretario di un partito che si chiama “Democratico” deve ascoltare la sua gente, poi decidere, non necessariamente in modo plebiscitario, ma dando dimostrazione di interesse e permettendo a tutti di contribuire alla decisione migliore per il partito e per il Paese.

Se ciò non avviene troppe volte, si rischia di arrivare a un punto in cui gli elettori di centro-sinistra non riusciranno a percepire alcuna differenza tra il Pd e il partito del predellino, tra Bersani e Berlusconi. In fondo, che differenza c’è tra la nascita del Pdl e la decisione del Pd? In entrambi i casi la decisione è stata presa dal giorno alla notte, senza alcuna mediazione pubblica.

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