L’immagine di Vincent Bolloré rischia di macchiarsi. Per i suoi affari in Africa. Uomo vicino a Cesare Geronzi e vice presidente di Generali, il finanziere francese è capofila dei soci stranieri in Mediobanca e ha di recente aumentato la sua partecipazione in Premafin, la holding della famiglia Ligresti cui fa capo la compagnia assicurativa Fondiaria Sai. Poi c’è il business in Camerun, dove Bolloré controlla insieme al socio belga Fabri la società Sacapalm, che possiede la più grande piantagione di palme da olio del Paese. Ma contro queste attività puntano il dito quattro associazioni che denunciano casi di inquinamento ambientale e violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori.

Secondo l’ong tedesca Misereror, la francese Sherpa e le camerunensi Ced e Focarfe, in seguito all’espansione delle piantagioni “ormai è diventato impossibile per gli abitanti del luogo coltivare un appezzamento di terreno in prossimità di casa: i piccoli agricoltori vengono così privati dei loro mezzi di sussistenza e aumentano i conflitti tra le popolazioni autoctone e non”. Situazione resa ancora più grave dal fatto che la maggior parte dei lavoratori della piantagione arriva da altri territori.

La questione non è nuova e già dal 2008 alcune inchieste giornalistiche se ne sono occupate, come quella del francese Benoit Collombat, che è stato citato in giudizio per diffamazione dal gruppo Bolloré. Socapalm, società un tempo statale, privatizzata dal 2000 e dal 2008 quotata alla borsa di Douala, possiede cinque grandi piantagioni di palma da olio. Un totale di oltre 100mila ettari da cui dipendono circa 30mila persone fra dipendenti e lavoratori dell’indotto.

Per via dello sfruttamento intensivo, si legge nel rapporto delle quattro associazioni, i terreni hanno perso fertilità e la produzione agricola è fortemente diminuita. Rilevazioni sul campo e analisi di laboratorio dimostrerebbero lo sversamento sistematico degli oli di lavorazione prodotti dagli stabilimenti Socapalm nei corsi d’acqua, che vengono così resi inutilizzabili. Con possibili conseguenze sulla salute delle popolazioni. Ad aggravare il tutto il “clima di terrore creato dalla società che da qualche anno si occupa della sicurezza delle piantagioni”. Si tratta dell’Africa Security, una specie di milizia privata, dicono gli osservatori nel loro rapporto, che sarebbe colpevole di “atti di sabotaggio, distruzione di abitazioni, pestaggi degli abitanti dei villaggi, che raccontano inoltre di casi di stupro e di omicidio”.

Le quattro associazioni hanno anche presentato un esposto all’Ocse. Sotto accusa il gruppo Bolloré e altre tre entità giuridiche che, legate a Bolloré, “esercitano di concerto il controllo sulle operazioni di Socapalm”: si tratta di Financière du Champs de Mars (Belgio), Socfinal (Lussemburgo) e Intercultures (Lussemburgo).

La società del finanziere francese si difende spiegando di essere socio minoritario di Socapalm e, quindi, di non avere il controllo operativo della società. Una circostanza ribadita qualche giorno fa al giornale online francese Rue89: «Non abbiamo le informazioni necessarie e se non ci lascerete il tempo necessario per rispondere, ne trarremo le dovute conseguenze, comprese quelle in materia di diffamazione».

L’immagine di Vincent Bolloré rischia di macchiarsi. Per i suoi affari in Africa. Uomo vicino a Cesare Geronzi e vicepresidente delle Generali, il finanziere francese è capofila dei soci stranieri in Mediobanca e ha di recente aumentato la sua partecipazione in Premafin, la holding della famiglia Ligresti cui fa capo la compagnia assicurativa Fondiaria Sai. E poi il business in Camerun, dove insieme al socio belga Fabri controlla Sacapalm, la società che possiede la più grande piantagione di palme da olio del Paese. Ma dopo tre anni di lavoro sul campo, quattro associazioni denunciano inquinamento ambientale e violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori della società.

Secondo l’organizzazione tedesca Misereror, la francese Sherpa e le camerunensi Ced e Focarfe, in seguito all’espansione delle piantagioni “ormai è diventato impossibile per gli abitanti del luogo coltivare un appezzamento di terreno in prossimità di casa: i piccoli agricoltori vengono così privati dei loro mezzi di sussistenza e aumentano i conflitti tra le popolazioni autoctone e non. Situazione resa ancora più grave dal fatto che la maggior parte dei lavoratori della piantagione arrivano da altri territori.

La questione non è nuova e già nel 2008 alcune inchieste giornalistiche se ne sono occupate. Socapalm, società un tempo statale, privatizzata dal 2000 e dal 2008 quotata alla borsa di Douala, possiede cinque grandi piantagioni di palma da olio. Un totale di oltre 100mila ettari da cui dipendono circa 30mila persone fra dipendenti e lavoratori dell’indotto.

Per via dello sfruttamento intensivo, si legge nel rapporto, i terreni hanno perso fertilità e la produzione agricola è fortemente diminuita. Le quattro associazioni, citando rilevazioni sul campo e analisi di laboratorio, denunciano poi lo sversamento sistematico degli oli di lavorazione prodotti dagli stabilimenti Socapalm nei corsi d’acqua, che vengono così resi inutilizzabili. Con conseguenze sulla salute delle popolazioni ancora ignote. Ad aggravare il tutto il “clima di terrore creato dalla società che da qualche anno si occupa della sicurezza delle piantagioni”. Si tratta della Africa Security, una specie di milizia privata, dicono gli osservatori nel loro rapporto, che sarebbe colpevole di “atti di sabotaggio, distruzione di abitazioni, pestaggi degli abitanti dei villaggi, che raccontano inoltre di casi di stupro e di omicidio”.

Le quattro associazioni hanno anche presentato un esposto all’Ocse. Sotto accusa il gruppo Bolloré e altre tre entità giuridiche che, legate a Bolloré, “esercitano di concerto il controllo sulle operazioni di Socapalm”: si tratta di Financière du Champs de Mars (Belgio), Socfinal (Lussemburgo) e Intercultures (Lussemburgo).

La società del finanziere francese si difende spiegando di essere socio minoritario di Socapalm e, quindi, di non avere il controllo operativo della società. Una circostanza ribadita qualche giorno fa al giornale online francese Rue89: «Non abbiamo le informazioni necessarie e se non ci lascerete il tempo necessario per rispondere, ne trarremo le dovute conseguenze, comprese quelle in materia di diffamazione».

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