L’Aquila chiama Italia: è il nome che è stato dato alla manifestazione nazionale di oggi. Una manifestazione organizzata da cittadini, forze sociali e culturali, istituzioni, movimenti e associazioni. Le loro rivendicazioni si riassumono in tre punti: un trattamento fiscale come per gli altri territori colpiti da calamità; garanzie per i disoccupati, i cassaintegrati e i precari e sostegno alle attività produttive, economiche, commerciali; ricostruzione certa. Il 20 novembre, inoltre, inizierà la raccolta delle 50mila firme necessarie per la presentazione della legge di iniziativa popolare elaborata dai cittadini aquilani. Per raccontare le ragioni di questa manifestazione, ecco un viaggio nel cratere sismico, che comincia con racconti di vita.

Vita da sfollati

Il terremoto rimane nel cervello. Soprattutto se la gestione dell’emergenza non ti ha permesso un’elaborazione del lutto. Non si può avere altra sensazione, ritornando all’Aquila oggi: non si parla d’altro. Dei danni, della ricostruzione, di quella notte del 6 aprile. Vivere all’Aquila, diciannove mesi dopo il terremoto, è sempre più difficile. Pina Lauria a settembre del 2009 aveva occupato simbolicamente la sua casa inagibile, per protestare contro un’assegnazione che l’avrebbe mandata dalle tende a una stanza d’albergo fuori dalla sua città. Oggi vive in uno degli appartamenti del progetto C.A.S.E. di Bazzano, uno dei new village più grossi. Su alcuni balconi c’è ancora il tricolore esposto il giorno dell’inaugurazione.

A dicembre di quest’anno, la proprietà degli alloggi passerà al Comune e si dice che, a quel punto, gli sfollati dovranno pagare un affitto. Perché le C.A.S.E. costano, a cominciare dalle questioni più banali: la bolletta elettrica degli spazi comuni illuminati, per esempio. E il Comune dovrà trovare il modo di rientrare di quei soldi. “Non sappiamo ancora in che termini, ma pare proprio che sia così. Pagheremo per stare in quartieri dormitorio. Qui, chi non ha perso il lavoro, chi ha qualcosa da fare, chi può, esce il mattino e torna la sera: non ci sono servizi, negozi, bar, farmacie, uffici postali: nulla di nulla. Al punto che è intervenuta la Caritas, con una tenda, come quelle delle tendopoli. Riscaldata da un termosifone elettrico. Il pomeriggio si fa un po’ d’aggregazione: ci vanno gli anziani che giocano a carte o che chiacchierano davanti al termosifone elettrico. Non ci fosse la tenda, starebbero tutto il giorno in casa”.

“Speravamo – continua Pina, che non ha smesso di occuparsi attivamente della propria città – di riuscire almeno a organizzare mercati ambulanti nelle varie aree, ma non è stato possibile. Così ci siamo organizzati per fare i turni e fare la spesa a chi non può muoversi”.

Gli anziani sembrano i grandi dimenticati di questo terremoto. In molti rimangono alloggiati negli alberghi o nelle due caserme dell’Aquila: non parlano volentieri della situazione, si sentono ospiti. E’ questa la parola chiave che campeggia ancora nelle strutture che li accolgono. La signora Filomena, dopo mesi in tenda, sta per compiere un anno di vita nella caserma Campomizzi, un posto dove per entrare o ricever visite devi mostrare i documenti. Non è un luogo per civili: “Abbiamo la nostra stanza, uno spazio comune, ma non c’è più neanche la televisione. Non possiamo cucinare, è vietato tenere fornelli in stanza, così ci accontentiamo della mensa. Ma non è un mangiare sano. Me ne andrei, ma non mi posso permettere un affitto, con i miei 500 euro al mese. Ero in attesa di una casa popolare, ma non so come andrà a finire”.

“Se non avessi avuto disponibilità economiche, starei in albergo da un anno, probabilmente”, dice Anna Colasacco, che si è arrangiata come ha potuto e ha trovato una casa in affitto a 30 chilometri dalla sua città: si è data un anno di tempo per capire cosa fare, insieme a suo marito. Oltre alla casa, in centro storico, hanno perso anche il laboratorio d’antiquariato. “Il contributo per l’autonoma sistemazione, duecento euro al mese a persona, ha cinque mesi di ritardo”- dice – ma noi l’affitto lo paghiamo tutti i mesi. Sarei rimasta all’Aquila ma non potevo permettermelo, e non abbiamo potuto riaprire la nostra attività: gli affitti sono troppo alti e nessuno ha pensato alle attività produttive. Abbiamo avuto solamente 800 euro al mese per tre mesi.”

Anche Anna lamenta l’assenza di spazi d’aggregazione. E’ un discorso che vale per tutti, dai più giovani ai più vecchi: L’Aquila, oggi, è una specie di ciambella, “un centro vuoto e una periferia che si espande, rarefatta e senza socialità”, per dirla con le parole dell’onorevole Giovanni Lolli.

A Collebrincioni, 1.090 metri d’altezza, dieci chilometri dall’Aquila, perimetro della ciambella, c’è un’area che ospita persone che vivevano in centro. Antonello Ciccozzi, ricercatore di antropologia all’università dell’Aquila, prende questo sito come esempio di risultato della gestione emergenziale: “Gli spazi collettivi sono stati prosciugati. Quel che ha prodotto il progetto C.A.S.E. è la distanza fra le persone, il vuoto”.

E il miracolo aquilano, che fine ha fatto? Massimo Cialente, sindaco dell’Aquila, è duro: “Oggi assistiamo al fallimento della politica in tutti i sensi. Il terremoto dell’Aquila è stato raccontato come un derby dalle due curve: dalla curva non si vede la partita per quella che è.” E chiosa: “Quello che conta in Italia è il racconto, non il fatto”.

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