Il film di Mario Martone “Noi credevamo” è un ammirevole gigante. Zoppo. La sua deformità , che peraltro non gli impedisce di camminare, non è causata dal suo imponente fardello di ambizioni. Che sono tante, tantissime, visto che quest’opera vuole raccontare non solo la storia del Risorgimento italiano ma quella di tutte le rivoluzioni, una trama cangiante di speranze, eroismi, viltà, errori, inganni. Le tradizionali regole dello spettacolo imporrebbero di proporre nella sceneggiatura una via maestra e di seguirla con poche deviazioni, in questo caso però infrangere le strutture abituali e avventurarsi in vari sentieri funziona. Gli spettatori si sentono investiti dal compito di destreggiarsi tra molti interrogativi, dal desiderio di affrontarli e di tentare delle risposte personali. La complessità del film diventa la sua forza. I repubblicani e i monarchici che compaiono nel racconto cinematografico, gli illuministi e i fanatici, i bersaglieri e e i garibaldini, i carbonari e i bombaroli impongono al pubblico di confrontarsi non solo col passato ma con il presente, e con le pulsioni che da sempre inducono gli uomini a voler cambiare la società e il mondo. Fino all’intuibile e desolante finale: a pagare sono sempre i più deboli.

Nell’affrontare gli avvenimenti del Risorgimento il memorabile film dei Taviani “Allons enfants” seguiva il percorso del protagonista fino alla sua completa stanchezza e disillusione attraverso una vicenda lineare. In “Noi credevamo” si intrecciano molte strade e molti spunti, anche perchè i protagonisti principali sono tre, destinati a moltiplicarsi in una continua evoluzione di aspettative e di caratteri. Ma questo non indebolisce il colossale affresco. Neppure la durata lo incrina. Le abbondanti tre ore del film, peraltro reduce da numerosi tagli, vengono accettate dal pubblico con la consapevolezza che il dibattito con sé stessi su temi tanto coinvolgenti ha bisogno di tempo.

“Noi credevamo” è un’opera imperfetta ma importante e avrebbe bisogno di poco per poter lasciare tracce importanti. Purtroppo però il film è stato lasciato solo. Per questo zoppica. Malgrado in molti abbiano collaborato alla sua fattura sembra che nessuno si sia occupato di rivederlo e di sottoporlo a quell’operazione che in editoria si chiama editing e che consente di cancellare dai libri alcune fastidiose sciatterie. Come quelle in cui ci si può imbattere in “Noi credevamo”. Perchè due patrioti decisi a raggiungere Garibaldi si accampano tra scheletri di colonne in cemento armato, tecnica costruttiva che nel Sud della metà Ottocento era sicuramente sorprendente, almeno quanto gli orologi da polso nei colossal sull’antica Roma?

Ma la debolezza del film non è da cercare neppure in queste incongruenze. Bensì in una assoluta disparità di proporzioni, nel fatto che una creatura grande e grossa sia stata rinchiusa in una casetta da nani, in un minuscolo rifugio per cinefili. Nella sua vasta coralità di racconto “Noi credevamo” avrebbe bisogno di respirare e di vivere davanti una coralità di spettatori. Invece è stato distribuito dalla Rai soltanto in trenta copie. Perché considerato un prodotto troppo difficile, troppo elitario. Uno degli slogan di Berlusconi all’inizio delle sue fortune televisive era: “Non si sottovalutano mai abbastanza i gusti del pubblico”. Convinzione che per anni si è rivelata vincente. Ma le stagioni cambiano. E oggi mentre le vecchie coreografie si stanno sbriciolando perché non dare la possibilità di camminare speditamente a un grande film che malgrado alcuni difetti è non solo da vedere ma da applaudire a lungo e con convinzione?

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