A dispetto del loro talento, i Soundserif vivono nell’ombra, emarginati in un limbo sul quale però bisogna venga fatta luce perché nel tempo la band romana ha avuto riconoscimenti fuori dai confini italiani e un privilegio che è toccato solo a pochi: suonare all’International Pop Overthrow 2010 nel celebre Cavern Club, il locale di Liverpool, situato al numero 10 di Mathew Street, celebre soprattutto per aver ospitato ben 292 esibizioni dei Beatles nei primi anni Sessanta.

Fu proprio in questo locale che nel 1961, durante una loro performance, i Beatles vennero avvicinati da Brian Epstein, l’uomo che consegnò la band al successo mondiale.
Nel Cavern suonarono anche band del calibro dei Rolling StonesThe Who, The Yardbirds,The Kinks e artisti come Elton John.

Suonare in un posto del genere non deve essere facile per nessun artista, i Soundserif nonostante tutto si sono dimostrati all’altezza.
Ma andiamoli a conoscere più da vicino: la band è formata da Fabrizio Serrecchia al basso, tastiere e chitarre elettriche, Andrea Petitta alle chitarre e voce, Luisa Ferrari voce e chitarre, Valentino Valente alla batteria e Daniele Arcolin alle tastiere.

Come è nato il gruppo e il nome da cosa deriva?
La nascita del gruppo è un po’ atipica in quanto paradossalmente è nato prima il progetto dell’album e poi il gruppo. Io (Fabrizio, ndr) e Andrea siamo amici da moltissimi anni, Daniele che proviene dal jazz, è arrivato in un secondo tempo ma è stato determinante nel ‘raffinare’ il suono della band. Oltre a noi tre che siamo il nucleo vero e proprio, hanno collaborato al disco anche Luisa Ferrari, Nicola Valente, Armando Croce e Piero Manzo, magnifico co-produttore.
Il nome del gruppo nasce da un’intuizione di Luisa: nell’individuare un carattere tipografico di tipo ‘sans serif’ (senza grazie) ne ha assaporato il suono interessante e insieme abbiamo pensato che unito a ‘sound’ potesse indicare una musicalità diretta, senza troppi fronzoli anche se non priva di ricerca melodica ed armonica

Il titolo dell’album – 12 pieces in the shape of an apple – ha un significato particolare?
Sì, è un po’ una parodia di ‘Trois Morceaux en forme de poire’ di Erik Satie. Inoltre la dodicesima traccia dell’album ‘12th’, è una piccola composizione strumentale che riecheggia lo stile di Satie. Per quanto riguarda la parola ‘apple’, bè… siamo beatlesiani!

Come mai la scelta di cantare in inglese e non in italiano?
Il nostro background musicale, in quanto a gusti, è prettamente ‘british’ e quindi è stato naturale affidarsi al suono della lingua inglese per tentare di raggiungere il risultato sperato. La padronanza della lingua di chi ha scritto la maggior parte dei testi, Luisa e il nostro grande amico Diego Maugeri che vive da molti anni negli Stati Uniti ci hanno davvero aiutato molto.
Determinante è stato il fatto che sin dall’inizio i demo abbiano ottenuto un ottimo riscontro presso il pubblico anglofono. Non escludiamo, tuttavia, una parallela avventura ‘made in Italy’ per le prossime produzioni.

Tra le vostre canzoni compaiono titoli come John Titor (or the time traveler), Brianadams (He bought in a little shop an old guitar, He hides his identity, rough voice and real sound of a rock star)… Come nascono le vostre canzoni?
Per quanto riguarda i testi gli argomenti a volte nascono per caso e altre volte prendono vita da storie che ci toccano emotivamente. E’ il caso di ‘Just a click’, il cui testo è stato scritto in un momento in cui si parlava molto di guerra e di attacchi terroristici.
John Titor’ prende spunto dalla storia che ha imperversato in Rete e in tv di un sedicente viaggiatore nel tempo. Ci sembrava un argomento interessante e divertente per un ‘singolo’ e ne è uscito un testo che racconta nello spazio di due strofe e due ritornelli tutto il succo della storia.
Brianadams’ nasce invece da una battuta fatta sul rocker: in maniera del tutto scherzosa abbiamo ipotizzato che il grande artista canadese nascondesse dietro le sue sembianze umane un supereroe tipo quelli della Marvel.
Per quanto riguarda la musica, invece, spesso partiamo da idee sviluppate dai singoli in modo abbastanza compiuto che poi però vengono immediatamente contaminate dai gusti degli altri.

Quali sono le vostre ambizioni e come vedete l’Italia musicalmente parlando?
Se fai musica il sogno rimane quello di sapere che il pubblico apprezza le tue canzoni; che molte persone scelgono di metter su il tuo disco perché hanno la voglia di ascoltarlo. L’Italia è un paese ricco di talenti e dalle grandi potenzialità, anche musicali; purtroppo è anche un paese di ‘figli d’arte’ e un paese troppo carico di ‘prodotti da banco’, insomma preconfezionati.

Voi siete una band talentuosa ma ancora senza un’etichetta. Partecipereste a un reality show come X-Factor?
A X-Factor sono tutti fin troppo ‘bravi’… ma c’è solamente apparenza vocale e niente sostanza.
Una bella voce senza una bella musica non sarà ricordata. Una bella musica sarà cantata da tante voci e sarà suonata nel tempo. X-Factor accende i riflettori solo sulle voci. Le idee musicali che valgono oggi sono sempre di meno e raramente vengono portate all’attenzione del grande pubblico. Inoltre ha il grande difetto della televisione: conta lo share. Per cui c’è tutto uno spettacolo forzato attorno alla musica che a noi infastidisce un po’.

Com’è la musica ai tempi di Internet?
E’ tanta! Basta un rapido sguardo tra le pagine musicali che si rincorrono a migliaia per rendersi conto di quanto talento ci sia in giro.
Rischiamo di essere banali nel dirlo, ma Internet offre così tante possibilità che fino a poco tempo fa erano impensabili.
Oggi si può far musica fregandosene delle mode riuscendo comunque ad avere un seguito, fans sparsi per il mondo ed è fantastico. La Rete poi offre l’opportunità di avere tante collaborazioni. Ora ad esempio stiamo lavorando a un pezzo per il prossimo album con il testo di Peter Mc Partland dei Big I am (band di Liverpool) e l’arrangiamento orchestrale a cura di Wim Oudijk, olandese. E’ questa la forza di Internet!

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