Lo scrittore Marco Mancassola

Nomade e precario lui lo è quasi per definizione. Forse per questo lo scrittore Marco Mancassola, 37 anni, ha denunciato in un intervento dalle pagine del manifesto (ripreso sul suo blog) l’immobilismo dei trentenni, costretti a vivere nella precarietà. Per lui le parole sono importanti. “Non mi piace il termine ‘denunciato’, fa intellettuale che guarda le cose da fuori. Preferirei dire: mi sono interrogato, ho riflettuto ‘da dentro’ sullo squilibrio tra la pressione sempre più schiacciante sulla vita dei trentenni precari, e l’apparente scarsezza delle loro reazioni – almeno in termini di protesta sociale e di solidarietà tra simili”.

Provenienza ricco Nord Est, studi di filosofia a Padova, ma origini orgogliosamente proletarie, come tanti coetanei Marco ha girato l’Europa per anni, fermandosi qualche tempo anche nelle case occupate di Londra. Se in Last Love Parade (Mondadori 2005) ha raccontato la cultura musicale dei giovani anni ’90, adesso lavora a due libri in cui rifletterà proprio sul tema della “generazione bloccata”.

Ce la spieghi meglio?
L’ho chiamata “locked-in” per sottolineare il contrasto tra la sua estrema consapevolezza e i suoi scarsi mezzi d’azione. Un trentenne istruito e precario oggi sa tutto, ha visto tutto, è informato, è consapevole della sua situazione. Però è paralizzato. Desidera essere indipendente, essere parte attiva nel divenire del mondo, non sentirsi sprecato o peggio umiliato, poter pensare a diventare padre o madre quando ne sente la vocazione. Sono cose basilari.

La salvezza è fuori dall’Italia?
Sì e no. Il precariato è un fatto globale e in città come Londra o Parigi la corsa alla sopravvivenza è feroce. Sono contento di vedere che un quarantenne, almeno all’estero, possa normalmente scrivere in prima pagina, guidare una grande azienda o un partito politico. Però, attenzione, non ne faccio una questione di passaggio del potere. Di fatto, non fa molta differenza che ci sia una passaggio generazionale se non c’è anche un passaggio di idee, se il modello di potere non cambia.

Però si dice: in Italia la colpa della marginalizzazione è anche dei trentenni stessi
La precarietà è imposta da un sistema che macina le persone come fossero automi, pezzi di ricambio, ed è usata sulla testa delle ultime generazioni: su questo non ci deve essere equivoco. Poi, certo, il sistema è bravo a fare leva su quelle parti di ambiguità che sono dentro di noi.

Quali?
Siamo cresciuti nel mercato delle merci e delle esperienze, abbiamo introiettato l’idea che fosse normale espandere all’infinito il desiderio, con il risultato di ritrovarci pieni di desideri contraddittori: voglio un lavoro serio ma un lavoro creativo, voglio essere libero ma voglio essere garantito, voglio essere qui ma voglio essere altrove, voglio la rivoluzione ma voglio che il mio stile di vita non cambi. Anche da questo risulta la paralisi della vita.

Barlumi di speranza ce ne sono?
A Padova, durante le contestazioni a Berlusconi, prima della solita carica della polizia i ragazzi se ne stavano sulla strada a gridare in coro: ‘dignità, dignità’. Soltanto questo, ‘dignità’. Mi è sembrato uno slogan bellissimo. Stavano chiedendo a Berlusconi di dimostrarne un po’, ma anche dicendo che ognuno ha diritto alla propria dignità: non si può crescere con la prospettiva di dover letteralmente mendicare il lavoro o la sussistenza. Questo sogna la gente come Berlusconi, un popolo di mendicanti, così il miliardario di turno può sentirsi buono quando sparge qualche briciola. Purtroppo, la politica può fare molto quando è dalla parte dei ricchi. Berlusconi può limitarsi a fare pochissimo, qualche barzelletta piazzata bene per distrarci, e intanto la forbice sociale si allarga. Non posso essere sicuro che una politica dalla parte della gente vera riuscirebbe ad agire su larga scala, ma credo ancora a una politica che prova ad aprire gli occhi delle persone anziché a gettarci fumo. Una politica della lucidità. Io ci credo ancora.

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