In questi giorni le televisioni italiane mandano in onda lo spot di un noto gruppo bancario, lo slogan è: Un mese di scuola per un bambino di Haiti. Funziona così, io apro un conto corrente con la banca che si impegna a fare una donazione a un’organizzazione onlus, la quale, a sua volta, assicurerà un mese di scuola a un bambino haitiano. Pubblicità emozionale? Senz’altro. Iniziativa lodevole o bieca speculazione? Qualcuno dirà che è meglio un aiuto interessato che nessun aiuto, qualcun altro ribatterà chiedendosi che fine faranno i quaderni e le matite di quel bambino quando sarà trascorso un mese dall’apertura del mio conto. Ognuno ha la sua opinione ed io non voglio qui esprimere un giudizio di merito. Resta il fatto che questo è un esempio, come potrei farne molti altri, di quello che gli esperti di comunicazione chiamano “marketing etico”.

Philip Kotler, il quarto “guru del management” di tutti i tempi secondo il Financial Times, ha scritto che tra le finalità del marketing etico le più importanti sono: soddisfare il consumatore, promuovere il benessere della società e assicurare un profitto all’impresa. Detto in parole povere, l’azienda supera il suo tradizionale ambito di riferimento (nel caso citato i servizi bancari) e passa ad occuparsi di temi sociali supportando attività di tipo filantropico. Praticamente un modo sicuro per ottenere un ritorno di immagine.

Ma è vera etica?

Se diamo per buone le regole del signor Kotler (e non vedo il motivo per contestare un “guru” del campo) se ne deduce che l’attività filantropica in questione è il collante che unisce la soddisfazione del cliente alla capacità dell’impresa di assicurarsi un profitto. È innegabile ravvisare in questo una certa doppiezza. In questa nostra parte di mondo, come c’è una “banalità del male”, esiste anche una “banalità del bene”, o forse sarebbe meglio dire un “bene banale”. Questa forma ambigua di bene consiste nel voler ignorare i fatti nudi e crudi, nel restare isolati nel nostro contesto dorato e astratto, e nel venire a conoscenza solo per sentito dire (perché ce lo dicono i giornali e le Tv) che nel mondo accadono anche parecchie cose brutte. E poiché, posti di fronte alle grandi tragedie del mondo, noi non sappiamo interagire con la nostra ordinaria indifferenza, oltre ad avere bisogno di qualcuno che ci induca a provare pietà, sentiamo anche la necessità di demandare ad altri il gesto di solidarietà che ci appianerà la coscienza.

Così facendo, la pubblicità, da strumento per la creazione dei bisogni, sempre più si va trasformando in uno stimolatore di nuovi sensi di colpa. Il senso di colpa è in effetti un dispositivo di persuasione efficacissimo (si pensi alle pubblicità che sfruttano l’insicurezza e la paura di essere brutti, troppo grassi, eccetera). La pubblicità, di fatto, si sta introducendo in una sfera della psiche umana estremamente intima e delicata, quella del pensiero punitivo.

Con l’avvicinarsi del Natale, c’è da scommetterci, le strategie di vendita delle aziende si affideranno in maniera massiccia a questo tipo di comunicazione. Noi consumatori saremo sommersi da messaggi promozionali che avranno lo scopo di indurci all’acquisto di determinati prodotti, promettendoci al contempo un grande lavacro della coscienza. L’informazione di superficie sarà: “spendi tranquillamente i tuoi soldi, sappi che comprando i nostri prodotti stai compiendo una buona azione”. Mentre il messaggio subliminale probabilmente ci dirà: “se invece ti tieni i soldi, o li spendi altrove, allora sei un essere meschino, cinico e senza cuore”.

Insomma, dov’è il confine tra il marketing etico e il ricatto morale?

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