Rosario era un camorrista. Ora ha un ristorante in Germania. È sposato con Renate, ha un figlio di nove anni. È scappato dall’Italia da 15 anni. Dandosi per morto, per non essere ucciso. Ma in Italia ha lasciato un figlio, Diego. L’unico che sa la verità. Che sa che è ancora vivo e conosce dove abita. E dopo tanti anni, quel figlio (ora camorrista) gli chiede aiuto. Sconvolgendo la vita tranquilla di Rosario. Dopo Lezioni di cioccolato il regista Claudio Cupellini realizza un noir ben architettato attingendo dalla cronaca – il ristorante “Da Rosario” fa venire in mente quel “Da Bruno” davanti al quale, a Duisburg, si consumò una resa dei conti della ‘ndrangheta; nel plot c’è anche il riferimento ai rifiuti della Campania – e dal buon cinema – la trama richiama A history of violence di Cronenberg – con ambizione.

L’operazione è riuscita e gli aspetti positivi del film sono molti. A partire dalla sceneggiatura, ben congegnata e ricca di svolte. La parabola di questo “Mattia Pascal” parla dell’impossibilità del riscatto e dell’utopia di una “seconda volta” che cancelli per sempre la prima fallimentare esistenza. Ma rimuovere del tutto il passato non è solo difficile concretamente: è inverosimile dal punto di vista psicologico. È Rosario stesso ad aver tenuto una porta aperta, a non aver reciso ogni legame con il passato. Che, infatti, torna a bussare alla sua porta. È Rosario stesso a non essersi protetto fino in fondo, chissà quanto inconsciamente. La discontinuità tra un “prima” e un “dopo”, nella vita, non può essere mai assoluta. I fantasmi non si seminano mai del tutto. La forza del film sono infatti i rapporti tra Rosario, Diego e il suo amico Edoardo, compagno di (loschi) affari. Dalla densità psicologica di questa triangolazione, in cui i legami di sangue sono stati soppiantati dai legami con altre “famiglie”, scaturiscono tutte le svolte. Che spesso sono rapide, fulminee, inaspettate. Così Una vita tranquilla mantiene la tensione fino alla fine. Interessante che l’azione proceda attraverso atti dettati dall’istinto, da scelte improvvise che vanno al di là della ragionevolezza. Le azioni principali sono provocate dalle pulsioni profonde dei personaggi che, in un momento, distruggono anni di fatiche e raziocinio. Ed è un istinto ferino, animalesco quello di Rosario, protagonista a cui ci affezioniamo nonostante sia, in realtà, mosso dall’autoconservazione prima che da ogni altro sentire. Rosario è un uomo dalle molte ombre. Non solo per i propri trascorsi malavitosi. Ma proprio per la propria natura inscalfibile, che emerge inesorabilmente e ne determina il destino.

Di Tony Servillo è superfluo parlare. Non gli serve neppure aprire bocca: la sua faccia parla da sola. Vedere, per credere, la scena della cena con Diego ed Edoardo: anche le rughe di Servillo comunicano. L’attore, premiato alla Festa di Roma per questa interpretazione, dà ulteriore spessore a un film comunque solido. Un lavoro non solo ben scritto, ma anche ben diretto e impreziosito dalle ottime musiche (anche quelle non originali: il brano de The Monks è una vera perla) di Teho Teardo, David di Donatello per la colonna sonora de Il Divo. Uno che ha collaborato con i Nurse with Wound, ha fatto teatro con Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, sta lavorando con Elio Germano per una lettura musicata di Viaggio al termine della notte e che, per la colonna sonora di Una vita tranquilla, ha collaborato con Blixa Bargeld. Suono internazionale, insomma. Come le mire di Cupellini, che finora si era cimentato soprattutto nella commedia. Ma il nero gli dona di più.

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