La martellante vulgata che da ieri sta facendo eco alle parole di Mario Draghi rischia di generare un gigantesco equivoco. Il governatore della Banca d’Italia non ha innalzato il vessillo dei giovani e dei precari per intonare un inno politicamente corretto agli interessi dei soggetti deboli. Non ha parlato in nome della giustizia sociale. E proprio questo dà ancora più valore alle sue parole. Nel discorso pronunciato ieri ad Ancona, molto importante e da leggere e meditare con attenzione (chi vuole lo trova integralmente riportato in coda a questa nota), Draghi dice semplicemente che il precariato finirà per scassare il capitalismo italiano, cioè la nostra vita economica.

Questa mattina i grandi giornali hanno raccontato il discorso di Ancona come se il primo banchiere italiano avesse celebrato la giornata della bontà. Titola in prima pagina La Repubblica: “Draghi: posto fisso ai precari”, come se fosse un sindacalista. Titola in prima pagina il Corriere della Sera: “Draghi e il dopo crisi: pensare ai giovani, stabilizzare i precari”. Si legge sotto il titolo: “… l’incertezza del lavoro, i rischi del precariato che, dice, occorre stabilizzare per non far ricadere sui giovani tutti i costi della recessione appena superata”.

Draghi ha detto tutt’altro! Nel suo lungo discorso ha pronunciato solo due volte la parola “giovani”, mai la parola “flessibilità”, e ha dedicato al lavoro precario queste parole: “Senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Se leggete bene, poco prima ha detto che in un epoca che chiede ricerca e sviluppo, innovazione di prodotto e di processo produttivo, con il “piccolo è bello” delle nostre microimprese non andremo lontani.

Le sue parole non sono di destra o di sinistra, non sono nè buoniste nè cattiviste. Da economista, guarda le cose per come sono. E in Italia sono così: da quando la nostra economia ha smesso di crescere (da dieci anni, o da venti, ognuno ha la sua datazione preferita), la borghesia imprenditoriale si è preoccupata esclusivamente di impadronirsi della maggior parte possibile della ricchezza (quel che resta del bottino del boom economico), e c’è stato uno spostamento drastico del reddito dal lavoro al capitale, e anche una drastica riduzione degli investimenti. (Queste cose le dice Draghi, non la Fiom).

Di questo fenomeno generale, il precariato è uno degli aspetti più preoccupanti, perché, ci spiega il Governatore, se il lavoratore non sta lì per un po’, non si affeziona al suo lavoro e ai suoi compagni di lavoro, se quella sua quotidiana attività non diventa parte di sè, non imparerà mai abbastanza, non diventerà un bravo ed esperto professionista, darà sempre performance deludenti. E la produttività ne soffrirà, e anche i profitti delle imprese (che secondo la dottrina economica cara a Draghi servono a investire sul futuro, non a comprare la barca nuova al figlio del riccone o al politico corrotto).

La domanda da porsi dunque non è quanto è diventato buono, o di sinistra, Draghi. Piuttosto dobbiamo osservare che tocca al custode del tempio del capitalismo spiegarci che il precariato distrugge il futuro.

Il che sollecita due pensieri.

Primo: la retorica sui “giovani” povere vittime dei loro genitori non tiene conto che questi giovani tra 15 anni saranno il nerbo della classe dirigente e lavoratrice, cioè i giovani siamo noi tutti di qualsiasi età, non sono una minoranza etnica, e questa società fregando loro distrugge se stessa.

Secondo: quanti discorsi di Draghi ci vorranno per far capire a certa sinistra che farsi piacere il precariato come strada verso la modernità non è più trendy?

(per leggere il discorso integrale di Draghi, clicca qui)

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