Alla fine del discorso il taccuino è vuoto. Mi capita sempre più spesso quando sento il politico di turno. Chissà, forse è perché io non sono un vero cronista politico e ascolto con le orecchie del cittadini comune. Non so cogliere gli accenni, i richiami, gli spunti polemici disseminati qua e là.

Comunque alla fine del comizio o dell’intervista mi ritrovo spesso a pensare: ecchissenestrafrega. Nella migliore delle ipotesi, quando il politico cerca di essere concreto e vuole parlare alla gente, ti becchi una tirata sulle tasse. Altre volte dobbiamo sorbirci le snervanti polemiche con l’avversario di turno. Fino ad arrivare agli insulti ringhiati con la bava alla bocca e il cerone che si scioglie.

Forse è una responsabilità anche dei cronisti. Noi che, con uno spettacolo umiliante, ci assiepiamo intorno a Casini (!) per chiedergli di commentare una frase di Cicchitto (!).

E i cittadini, anche loro devono fare un mea culpa, perché applaudono nelle piazze discorsi che riecheggiano le leggi razziali del Ventennio.

Ma perché nessuno usa più parole grandi? Ci pensavo, dieci giorni fa, dopo aver assistito all’assemblea nazionale del Pd a Busto Arsizio. Alla fine della giornata ho consultato il mio taccuino e non ho trovato una, ma dico una, frase che mi abbia scaldato il cuore.

Non è che fossero tutte sciocchezze, anzi. C’erano tante espressioni di buon senso. Ma di parole grandi neanche una. Il Pd è arrivato al Nord, dicevano tutti. E allora avanti con le parole d’ordine che si suppone debbano essere le uniche che interessano alla gente padana: tasse, immigrazione, piccola impresa e via discorrendo. Sembra la trasposizione attualizzata e a parti invertite delle macchiette degli anni Cinquanta: una volta c’erano i comunisti trinariciuti e oggi il brianzolo che di notte sogna tasse e federalismo.

Allora guardo e riguardo le carte e trovo questo appunto: Enrico Letta sale sul palco, guarda lo slogan di Bersani che parla di “rimboccarsi le maniche” e con un gesto da simpaticone si rimbocca appunto la camicia. Mi assale la tristezza.

Dei discorsi di Berlusconi e soci non merita neanche parlare. Certo, il Cavaliere ti fa riempire il taccuino, ma soltanto perché ogni volta ti sembra di assistere al tramonto della democrazia (accolto dagli applausi della platea). E Bossi? Alla fine di ogni comizio ti prende un senso di angustia e di malessere che opprime il petto.

E così resto sempre con il taccuino vuoto. Di fronte alla politica, ma non solo. Ricordo una recente predica del cardinale Angelo Bagnasco agli aspiranti catechisti. Dopo una lunga disquisizione dottrinale, l’omelia si avvia alla fine. Il presidente della Cei assume un tono solenne. E io impugno la penna, prendo un respiro profondo. “Ora vi devo dire un’ultima cosa importante”, dice il cardinale. E io mi scaldo, dai, dimmi qualcosa di grande, la povertà, l’uguaglianza, la fratellanza, scegli tu. Bagnasco stringe gli occhi: “Mi raccomando, spiegate alla gente come ci si veste per venire in chiesa”. Chiudo il taccuino ed esco.

Non voglio fare lo snob. Preoccuparsi delle tasse, di soldi, non vuol dire grettezza. Il denaro significa arrivare a fine mese, ma anche offrire a se stessi e ai figli occasioni di una vita dignitosa. Per un imprenditore i soldi sono la via per sviluppare l’impresa cui dedica la sua vita. E l’immigrazione? Per affrontare la questione non dobbiamo negare i mutamenti che le ondate migratorie provocano nelle nostre città e nella nostra cultura, non si può ignorare lo spaesamento che suscitano in tanti di noi, soprattutto nelle categorie più deboli.

Non so che cosa ne pensiate voi, io, però, credo che per affrontare questi problemi non si possa fare ricorso alla paura. I timori individuali sono parte delle ansie collettive. Per affrontarle insieme bisogna coinvolgere tutti. E per farlo occorre avere grandi mete, grandi ambizioni. Perché i discorsi improntati alla paura oggi raccolgono consensi, ma in fondo la maggioranza di noi ha bisogno di speranza. Di sogni.

Ecco, di questo non trovo traccia nei discorsi dei leader. Eppure non è necessariamente così. Non è sempre stato così in Italia. Non è così neanche oggi nel resto del mondo. C’è ancora chi sa usare parole grandi. Prendete questo discorso di Barack Obama: “Guido per Harlem, scendo per il South Side di Chicago, vedo tutti quei ragazzi sparsi agli angoli delle strade e allora dico: potrei essere io, lì, ma grazie a Dio è andata diversamente… il dolore della discriminazione è ancora sentito in America… io voglio che i nostri figli aspirino a diventare giudici della Corte Suprema. Voglio che aspirino a diventare presidenti degli Stati Uniti”.

Guardate queste quattro righe. Provate a sottolineare alcune parole: dolore, discriminazione, figli, aspirazioni. E’ un esempio: qui si parla di vita, di cose concrete, ma c’è un senso di rabbia e insieme di speranza. C’è l’idea del futuro.

E ora facciamo una prova: ascoltiamo i discorsi dei nostri politici, sottolineiamo le loro parole. Non so che cosa darei, come giornalista e come cittadino, per poter annotare sul mio taccuino una frase come quella di John Kennedy: “Non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te, ma piuttosto ciò che tu puoi fare per il tuo Paese”.

Certo, le parole grandi possono nascere anche da situazioni drammatiche. Come accadde a Nelson Mandela prima di entrare in carcere: “Durante la mia vita – disse – ho dedicato tutto me stesso alla battaglia del popolo africano. Ho combattuto contro la dominazione bianca e contro quella nera. Ho salutato con entusiasmo l’ideale di una società democratica e libera dove tutti possiamo vivere insieme in armonia e con uguali opportunità. Sono gli ideali in cui spero di vivere e che spero di realizzare. Ma se è necessario, sono anche gli ideali per cui sono pronto a morire”.

È anche una questione culturale. Lessicale, perfino. Gli americani sono abituati a discorsi più solenni, la lingua inglese si presta a espressioni più lapidarie, quasi slogan: “Yes, we can”. L’italiano si presta meno a queste frasi che possono anche sembrare retoriche. E noi siamo diventati un popolo cauto che teme la demagogia (salvo poi buttarci nelle braccia di Berlusconi). Ma quella che potrebbe essere un salutare precauzione ci ha portati senza che ce ne accorgessimo a un triste disincanto. Addirittura al cinismo.

Siamo certi, però… sono certi i politici che guidano il Paese o aspirano a farlo, che gli italiani non vogliano davvero sentire parole grandi? No, credo, spero di no. Abbiamo bisogno, e quanto!, di richiami più alti, anche proprio per affrontare le sfide difficili della vita quotidiana. Soltanto il senso del futuro può aiutarci a costruire un presente migliore.

Credo che molti di noi desiderino discorsi che spalancano orizzonti nuovi. Che ci ricordano il nostro essere parte del mondo. Che ci costringono a pensare agli altri, al paradosso folle di miliardi di persone che muoiono di fame alle porte della nostra Europa.

Chissà, forse chi ci governa pensa che noi non abbiamo più ideali. O magari, in fondo, sente di non avere l’autorevolezza e la credibilità per tentare grandi discorsi.

Libertà, uguaglianza, giustizia, futuro, coraggio… da quanto tempo non ascoltiamo queste parole?

Cerco nei miei taccuini, ma non ne trovo traccia.

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