di Luigi Sabino

Terzigno. Di questo comune di poco meno di 20mila anime fino a poco tempo fa quasi nessuno aveva sentito parlare. Poi in poco meno di un mese la cittadina alle falde del Vesuvio ha conquistato le prime pagine dei giornali, ha visto arrivare troupe delle principali emittenti televisive, è diventato il centro del dibattito politico.

Un passaggio brusco e non indolore quello da sonnacchiosa vita di provincia a realtà d’interesse nazionale perché è a Terzigno che è scoppiata l’ennesima rivolta dei rifiuti. Così, da quando il governo ha annunciato di voler utilizzare questo territorio come ennesima discarica la gente è scesa in piazza, ha eretto barricate, bloccato gli autocompattatori e, soprattutto, ha tenuto testa alle decine di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa.

Donne e uomini, anziani e giovani, studenti e lavoratori hanno manifestato il loro no a quello che definiscono un vero e proprio “massacro del territorio”.

Momenti di tensione quando i manganelli incrociano i bastoni, quando gli elmetti fronteggiano i caschi da motociclista, quando ai lacrimogeni si risponde con i sanpietrini. Scontri, feriti, arresti, perquisizioni sono gli elementi che hanno trasformato Terzigno in una Belfast nostrana.

Che cosa ha portato comuni cittadini a opporsi alle forze dell’ordine? Se Terzigno si fosse trovata dall’altra parte della Linea Gotica per rispondere a questa domanda forse il governo si sarebbe preso qualche giorno.

Sfortuna vuole però che Terzigno non sia una ridente comunità padana ma un piccolo centro del napoletano e, soprattutto, che si trovi in un territorio controllato dai clan. Ecco allora che il “sistema” è tirato in ballo e che persone come il ministro Prestigiacomo o l’onorevole Mantovano accusino la camorra di essere regista occulta della protesta antidiscarica.

È già successo prima, a Pianura e a Chiaiano. Ogni volta che nel napoletano scoppia una protesta contro il governo chi vi prende parte è bollato come camorrista. Ma quanto c’è di vero in queste accuse? Perchè i clan dovrebbero bloccare l’apertura delle discariche? Che le cosche abbiano interessi nel settore dei rifiuti è un fatto ormai noto da quando nel 1992, Nunzio Perrella, boss del Rione Traiano diventato collaboratore di giustizia, in una delle sue deposizioni all’allora procuratore della DDA partenopea, Franco Roberti disse:

“Dotto’, non faccio più droga. No, adesso ho un altro affare. Rende di più e soprattutto si rischia molto meno. Si chiama monnezza, dotto’. Perché per noi la monnezza è oro”.

Magistratura e forze dell’ordine sono partite da qui per ricostruire, pezzo dopo pezzo, come i clan, soprattutto quelli dell’area flegrea e casertana, abbiano creato, nel corso degli ultimi dieci anni, un vero e proprio impero della “monnezza”.

Dopo Perrella, molti altri “pentiti” hanno illustrato i sistemi utilizzati dai clan per guadagnare dalla raccolta dei rifiuti. In sostanza, hanno spiegato i collaboratori di giustizia, la camorra ha operato come una efficientissima società di servizi, offrendo a imprenditori ed enti statali la rimozione dei rifiuti, anche nocivi, a prezzi contenuti.

Non è un caso quindi che nelle discariche improvvisate del giuglianese, del casertano e delle zone flegree siano finite anche tonnellate di spazzatura, comprese sostanze nocive, provenienti da altre regioni d’Italia. Un particolare quest’ultimo spesso taciuto nonostante le diverse intercettazioni telefoniche che dimostrino come gli industriali toscani e veneti fossero ben felici di chiudere un occhio sul corretto smaltimento dei loro scarti di lavorazione.

Gli affari sono affari.

I clan però non si sono limitati solo a trasportare e a seppellire rifiuti tossici. Hanno fatto di più e di peggio. Grazie ai loro contatti politici (Cosentino docet) hanno costituito aziende, comprato autocompattatori, condizionato appalti, acquistato cave e terreni in modo da appropriarsi anche del denaro pubblico destinato alle ditte che si occupano dello smaltimento.

Hanno, in pratica, assunto il controllo totale della gestione della “monnezza”. Rilevante è che le due discariche che il governo vorrebbe utilizzare a Terzigno, cava Vitiello e cava Sari, siano di proprietà di aziende che tra i loro soci annoverano personaggi del calibro di Salvatore La Marca, Giuseppe De Gennaro e Giovanni Vitiello, tutti personaggi ritenuti vicino alla cosca Fabbrocino, una delle più sanguinarie organizzazioni camorristiche della Campania. Particolare, questo, stranamente “dimenticato”.

Per capire quanto sia radicato l’interesse della camorra nell’affaire rifiuti, basti pensare che il comune di Afragola, sciolto nel 2005 per infiltrazioni mafiose, aveva affidato lo smaltimento dei rifiuti a un personaggio ritenuto vicino al clan Moccia. Cosa assurda però è che, nonostante la magistratura sia intervenuta revocando i conferimenti alle aziende del soggetto in questione, questi abbia continuato a lucrare dallo smaltimento dei rifiuti “fittando” i propri autocompattatori alle nuove vincitrici degli appalti. Si esce dalla porta e si entra dalla finestra.

Un altro modo utilizzato dai clan per condizionare indirettamente il ciclo dei rifiuti è la gestione di tutte le attività che a questo sono collegate. Costruire una discarica richiede cemento, sabbia, putrelle e chissà quanto altro ancora. Tutte attività in cui la camorra da decenni si è profondamente inserita condizionandone il mercato.

Tutti questi fattori, ampiamente documentati da decine d’inchieste delle procure antimafia campane, portano a pensare che, in realtà, la camorra dall’apertura delle discariche possa solo guadagnarci e che quindi non ha nessun interesse ad alimentare una protesta popolare. È pur vero che la DDA napoletana ha identificato 4 presunti esponenti di un clan che avrebbero partecipato agli scontri con la polizia, ma questo non fa luce su eventuali disegni criminali.

La camorra, e la storia dovrebbe averlo insegnato, non è mai mossa da semplici sentimenti eversivi ma segue sempre il proprio interesse economico, cercando il dialogo con le forze politiche ed economiche piuttosto che la contrapposizione.

Quando a Pianura il clan Lago decise di finanziare le barricate antidiscarica nel 2008, lo fece per un interesse ben preciso e che è stato poi spiegato ai magistrati da Giovanni Gilardi, ex affiliato agli stessi Lago. Il disegno descritto dal pentito era semplice. Più alta era la tensione più si distoglieva l’attenzione dalle altre località di Pianura, dove i Lago stavano costruendo palazzine abusive che alla fine frutteranno all’organizzazione circa 80.000 euro di pizzo.

A Chiaiano, invece, lo spettro della camorra durante la protesta fu evocato solo perché le forze dell’ordine identificarono dalle targhe degli scooter alcuni parenti di noti esponenti del clan Nuvoletta di Marano. Quello che, però, quasi tutti si dimenticarono di rilevare è che il presidio antidiscarica aveva preso il controllo di una delle due strade che conduce a Poggio Vallesana, residenza degli stessi Nuvoletta

Il semplice fatto quindi che presunti camorristi transitassero per i luoghi della protesta ha esteso l’affiliazione al clan anche a persone che con il “sistema” non avevano nulla a che fare.

Quando, quindi, si parla d’infiltrazioni camorristiche a Terzigno, sarebbe opportuno farlo solo dopo aver capito quale interesse avrebbe la camorra nella protesta perché altrimenti si corre il rischio di far passare per ciò che non è il legittimo e sacrosanto diritto dei cittadini di tutelare la propria salute e la propria terra.

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