Per chi scrive di carcere sembra un macabro aggiornamento quotidiano. Il numero delle persone affidate allo Stato, e che lo Stato in qualche modo fa morire, aumenta ogni giorno. La maggior parte di queste storie rimane rinchiusa nel buio di un corridoio penitenziario. A volte, invece, capita che qualcuna riesca a bucare il muro dell’omertà e a finire sui giornali. E’ il caso di Stefano Cucchi, esploso un anno fa grazie alla caparbietà della famiglia e oggi giunto alla richiesta di 12 rinvii a giudizio (per il personale sanitario e i tre agenti penitenziari indagati) e di una condanna a due anni di reclusione (per il funzionario del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria che ha chiesto il rito abbreviato). Ma è anche il caso, sempre oggi, di Simone La Penna, un ragazzo di 32 anni morto un mese dopo Cucchi nel carcere romano di Regina Coeli. Come Stefano, Simone aveva problemi con la droga. E’ stato portato in cella nel gennaio 2009 e già un mese dopo aveva perso 18 chili. Anoressia nervosa, la stessa patologia di cui aveva sofferto in passato. Inutili le richieste di scarcerazione, cui il Tribunale di sorveglianza si è sempre opposto. Simone è morto il 26 novembre 2009, dopo essere dimagrito di circa 30 kg. Ora ci sono sette persone iscritte nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di omicidio colposo. Le famiglie di Stefano e di Simone chiedono giustizia a quello stesso Stato che ha tolto loro i figli, i fratelli. A nome anche di tutti coloro che questo coraggio non ce l’hanno. Perché una storia come quella di Stefano e di Simone (ma anche di Federico, Giuseppe, Aldo, Manuel e di tutti gli altri) potrebbe capitare a chiunque di noi.

Articolo Precedente

Rifiuti, centinaia di cittadini si rivolgono alla procura e ai lettori del Fatto

next
Articolo Successivo

Pastori sardi, stop all’assedio in Regione
“Non ci arrendiamo, la trattativa continui”

next