Ogni volta che prendo in braccio mio nipote Grant di 2 anni, mi chiedo come sarà questo nostro mondo quando avrà la mia età, tra 60 anni. So bene che se non cambiamo rotta, non sarà un belvedere. E l’attuale crisi economica ne è un presagio.

Il capo di governo di Panama, Omar Torrijos, aveva previsto questo tracollo economico, capendone le sue implicazioni già nel 1978, quando ero un sicario dell’economia. Eravamo sul molo degli yacht dell’isola di Contadora, un rifugio sicuro dove politici statunitensi e dirigenti d’azienda potevano godersi sesso e droghe lontano dagli occhi indiscreti della stampa internazionale. Omar mi disse che non si sarebbe lasciato corrompere da me. Mi disse che il suo obiettivo era quello di liberare la sua gente dalle “manette degli yankee”, per far sì che il suo paese potesse controllare il Canale, per aiutare l’America Latina a liberarsi da ciò che rappresentavo e che lui definiva “capitalismo predatorio”.

Sai”, aggiunse, “quello che ti sto suggerendo andrà anche a favore dei tuoi figli”. Mi disse che il sistema che appoggiavo era destinato al fallimento. “Imploderà, come è successo all’impero spagnolo”. Prese un tiro dal suo sigaro cubano e cacciò fuori il fumo lentamente, come qualcuno che sta mandando un bacio. “A meno che non ci mettiamo tutti a combattere i capitalisti predatori”, ammonì, “l’economia globale andrà in tilt”. Posò lo sguardo sull’oceano e poi mi guardò: “No permitas que te engañen“, disse (“Non lasciarti ingannare”).

Trenta anni dopo, Omar è morto, probabilmente assassinato perché si rifiutò di soccombere, ma le sue parole ancora risuonano nella mia testa. Ed è per questo che ho intitolato il mio ultimo libro “Hoodwinked” (“Ingannati”).

Siamo stati ingannati e portati a credere che una forma mutante di capitalismo, sposata da Milton Friedman e promossa dal Presidente Reagan, come da tutti quelli dopo di lui – e che ha avuto come risultato che meno del 5% della popolazione consuma più del 25% delle risorse del pianeta – potesse essere accettata.

Il fallimento, invece, è totale. L’unico modo per cui la Cina, l’India, l’Africa e l’America Latina potrebbero adottare questo modello sarebbe quello di trovare altri cinque pianeti come il nostro, ovviamente disabitati.

La maggior parte di noi si rende conto del fatto che la vita dei nostri nipoti è minacciata dalle crisi generate dalla nostra gestione del potere. La questione non è prevenire, né tornare alla “normalità”. E nemmeno di disfarsi del capitalismo. La soluzione consiste nel sostituire il mantra di Friedman “l’obiettivo del business è di ottenere il massimo dei profitti a prescindere dai costi sociali e ambientali” con una filosofia più vitale: “Creare profitto all’interno di un contesto che produca un mondo più sostenibile, più giusto e pacifico” creando un’economia basata sulla produzione di cose realmente utili al mondo.

Non c’è niente né di radicale né di sovversivo in questi obiettivi. Per più di un secolo, in seguito alla fondazione del mio Paese, gli stati hanno dato commissioni solo a quelle compagnie che dimostravano di lavorare nell’interesse pubblico, chiudendo tutte quelle che si tiravano indietro. Nel 1886, quando una decisione della Corte Suprema ha esteso i diritti garantiti ai singoli individui anche alle società, senza estendere anche le responsabilità, tutto questo è finito.

Come sicario dell’economia ho preso parte al gioco che ci ha fatto precipitare in questo pericoloso contesto. Come scrittore e conferenziere, ho passato gli ultimi cinque anni a girare gli Stati Uniti e a visitare la Cina, l’Islanda, la Bolivia, l’India e molti altri paesi, parlando a tutti: ai leader politici ed economici, agli studenti, agli insegnanti e ai lavoratori. Ho letto libri sui piani economici di Obama, sui progetti per riformare Wall Street. Mi ha colpito il fatto che la maggior parte delle argomentazioni riguardasse come affrontare l’emergenza. Penso invece che contemporaneamente al bisogno di fermare l’emorragia, dobbiamo anche debellare il virus che l’ha provocata.

Nutro forti speranze nel pensare che siamo pronti ad accogliere l’ammonimento di Omar, per mettere in pratica il cambiamento che sarà la salvezza per la generazione dei nostri nipoti.

(Traduzione a cura di Paola Porciello)

Articolo Precedente

“Il problema della Fiat non sono i lavoratori,
manca una vera politica industriale”

next
Articolo Successivo

“Rare earth”, sui mercati irrompe l’ultima bolla speculativa

next