Le recenti restrizioni imposte dalla Cina sulle esportazioni di elementi rari (“rare earth”) e il panico che ne è seguito su scala globale avrebbero dato origine a una nuova pericolosa bolla speculativa nel mercato finanziario. E’ l’allarme lanciato da un crescente numero di analisti e ripreso in questi giorni dal Financial Times. In un mercato cruciale per i destini dell’industria hi-tech, e caratterizzato da un giro d’affari annuo di circa 2 miliardi di dollari, i pessimi segnali lanciati da Pechino hanno indotto alcuni analisti a temere il peggio. Ma hanno anche scatenato l’entusiasmo degli speculatori proiettando il loro interesse sulle potenzialità del settore minerario.

A costituire l’elenco delle “terre rare” sono appena diciassette elementi collocati nei meandri della tavola periodica. Hanno nomi come lantanio, neodimio, prometio e lutezio, e restano sconosciuti ai più anche se, è bene ricordarlo, sono assoluti protagonisti della vita di tutti i giorni. Il loro utilizzo è infatti diffusissimo: dalle batterie dei cellulari a quelle delle automobili passando per le turbine eoliche fino ad arrivare alle produzioni militari come missili teleguidati, radar e carri armati. Le compagnie minerarie specializzate in questo segmento compongono da qualche anno un indice di riferimento costruito e monitorato da una società di ricerca, la canadese Kaiser BottomFish. Il problema, evidenzia ora il Financial Times, è che dal 2008 ad oggi il valore dello stesso è aumentato di 12 volte, con una crescita del 35% nel solo ultimo mese. Un segnale inequivocabile che all’analista di settore John Kaiser ricorda terribilmente la famigerata bolla Dot-com gonfiatasi alla fine degli anni ’90 con boom delle imprese internet e successivamente esplosa con esisti disastrosi: “è una corsa in cui chiunque potrebbe inciampare”.

A determinare le fortune del mercato, prima ancora degli speculatori, sono soprattutto le scelte del governo cinese. Nel corso del 2009 il 97% dell’attività estrattiva mondiale di elementi rari si è concentrata in Cina dando così vita a una monopolizzazione di fatto del mercato. Negli ultimi tempi, però, Pechino ha optato per un cambio di rotta. A seguito di una mini crisi diplomatica con Tokyo, il governo ha bloccato le forniture di materiale al Giappone riducendo al tempo stesso le spedizioni dirette verso i mercati di Corea del Sud, Europa e Nord America. Le autorità cinesi hanno negato l’esistenza di un embargo ma hanno ammesso di aver adottato una politica di riduzione delle attività estrattive con l’obiettivo di “tutelare l’ambiente”. Tradotto, significa una contrazione del 72% delle quote destinate all’export per il secondo semestre 2010. Una scelta insostenibile per i grandi consumatori mondiali costretti ora ad attivare nuovi progetti di ricerca ed estrazione degli elementi che, seppur in misura minore, sono notoriamente diffusi anche in altre aree del mondo.

Proprio su questa esigenza contano ora le imprese del settore, società di medie dimensioni, spesso sconosciute, eppure potenziali colonne portanti del nuovo boom minerario. Nuove iniziative di ricerca e produzione alimentano i loro sogni di gloria e la speculazione fa il resto. Per capirlo è sufficiente uno sguardo alla storia delle quotazioni. Rispetto al minimo annuale registrato il 28 ottobre 2009, la canadese Quest Rare Minerals ha visto aumentare anche del 246% il valore unitario dei suoi titoli. Il 30 giugno scorso, a New York, le azioni della Rare Element Resources si compravano per 2 dollari. Per accaparrarsene una, ieri, ne servivano più di 11. La capitalizzazione di mercato di appena sei sconosciute compagnie minerarie di Usa, Canada e Australia, ha ricordato il Financial Times, si aggira oggi sui 7 miliardi di biglietti verdi anche se le suddette, al momento, non hanno ancora iniziato ad operare sulle rare earth.

Le motivazioni reali dietro alla stretta cinese non sono ancora chiare ma è lecito pensare che il principale obiettivo di Pechino sia quello di mettere in crisi gli acquirenti stranieri per poi sfruttare al meglio la propria posizione in sede negoziale. La Cina, insomma, potrebbe anche decidere di riattivare le forniture in cambio di qualche concessione d’altro genere dalle controparti ottenendo, ad esempio, un allentamento della pressione internazionale che circonda al momento la sua politica monetaria. In attesa di risolvere il problema, comunque, gli importatori hanno già iniziato a battere strade alternative. Il Giappone, ad oggi il primo destinatario degli elementi rari cinesi, si è rivolto a un altro potenziale fornitore, il Vietnam, intavolando una trattativa che, si dice, dovrebbe andare a buon fine in tempi brevi. La Corea del Sud, contemporaneamente ha lanciato un appello agli Stati Uniti e allo stesso Giappone per l’avvio di un programma comune di esplorazione ed estrazione al di fuori dei confini cinesi.

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