Dopo aver passato quasi indenni la crisi perché “non sapevano l’inglese”, le banche italiane sarebbero oggi in pericolo. Proprio per gli stessi motivi che, finora, le hanno salvate: perché sono conservatrici, avverse al rischio e guidate da Fondazioni bancarie provinciali, troppo prudenti e a corto di liquidità. A sostenerlo è il Financial Times, che non usa mezzi termini. “Le banche italiane sono tra le meno capitalizzate in Europa, ora che le nuove regole di Basilea impongono requisiti di capitali molto severi, dovranno riuscire a spiegare ai mercati dove hanno intenzione di raccogliere nuove risorse”.

In poche parole serve capitale, le strade per raccoglierlo sono limitate e, a leggere il quotidiano finanziario inglese, al momento tutte difficili da percorrere.

La strada più immediata sarebbe quella degli aumenti di capitale. Ma “Unicredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi su questo sono categoriche: non ci saranno aumenti di capitale, piuttosto – sostiene Ft – si taglieranno i dividendi. Il capitale sarà accumulato dimezzando la porzione di utili destinata agli azionisti”, continua Ft. Una scelta considerata “politicamente sensibile”, visto che i principali destinatari dei dividendi sono proprio le fondazioni bancarie, “rette da potenti locali, che hanno sempre fatto affidamento ai dividendi per finanziare iniziative sociali”.

La strada dell’accantonamento degli utili, oltre ad essere sensibile “politicamente”, potrebbe essere difficilmente percorribile, almeno nel breve periodo. Perché, prima di accantonarli, gli utili bisogna produrli e le banche italiane sono oggi molto meno redditizie rispetto alle concorrenti europee. “Negli ultimi dodici mesi le banche italiane in borsa hanno reso mediamente il 13,2% in meno rispetto alla media delle banche europee. Durante la crisi hanno fatto meglio, ma ora la tendenza si è invertita”, scrive il Financial Times, citando la performance dell’indice FTSE top bank. Il motivo del basso rendimento starebbe nel DNA stesso dell’attività bancaria italiana, che sarebbe “troppo concentrata sulla clientela retail” e quindi troppo dipendente dai tassi di interesse, oggi a livelli minimi. In pratica le banche italiane si ostinano a “fare le banche” nel senso più classico del termine: raccolgono risparmi dalla clientela e concedono prestiti. Buona parte degli utili viene prodotta grazie alla differenza tra tassi passivi (pagati sui depositi) e tassi attivi (raccolti sui prestiti), mentre le grandi banche europee guadagnano soprattutto con le commissioni dalla vendita di titoli, oppure con l’investment banking, offrendo finanziamenti e servizi alle grandi imprese (per quotazioni in borsa, fusioni, acquisizioni, emissioni di obbligazioni, ecc..).

Quale che sia il giudizio sulle norme di Basilea III, le banche italiane dovranno adeguarsi, come tutti gli altri, entro il 2019, quando le banche europee dovranno avere un rapporto tra capitale (Core Tier 1) e attività ponderate per il rischio almeno pari al 7%. Unicredit era all’8,3% alla fine di giugno, ma la percentuale potrebbe presto scendere sotto l’8% a causa delle nuove definizioni di capitale (più restrittive) che entreranno in vigore. Intesa Sanpaolo è al 7,9%, ma potrebbe scendere sotto il 7%, per gli stessi motivi. Ma il vero malato, tra i grandi istituti italiani, sarebbe Montepaschi, attualmente al 5,8%.

Intanto, mentre le banche italiane cercano di limitare i danni di Basilea III, nei consigli di amministrazione delle fondazioni bancarie italiane è partito il valzer delle poltrone. Venerdì scorso è stata la volta di Fondazione Cariverona, che ha il 4,63% del capitale di Unicredit. Paolo Biasi è stato confermato alla presidenza per acclamazione, ma le vicende giudiziarie in cui è coinvolto (http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/09/grosso-guaio-biasi-sotto-inchiesta-per-bancarotta/58846/) potrebbero presto allontanarlo – temporaneamente – dal vertice della fondazione. A sostituirlo ci penserebbe il neo-eletto vice-presidente vicario Giuseppe Sala, un avvocato vicino a Biasi. Sala ha superato nelle preferenze Giovanni Maccagnani, il candidato alla vice-presidenza proposto dal sindaco leghista di Verona Flavio Tosi. Già assessore leghista ai lavori pubblici e all’edilizia privata del Comune di Verona, Maccagnani dovrà “accontentarsi” di guidare il Comitato Finanza, dedicato agli investimenti. Per la Lega, nelle prossime settimane, potrebbe rendersi disponibile una nuova poltrona, che porterebbe i posti in Consiglio da sette a otto. Con buona pace del Financial Times.

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