Roberto Cota esulta e fa bene. Ma la partita – piaccia o no – non è ancora finita: c’è tutto il secondo tempo da giocare, anche se a leggere titoli di giornali e telegiornali non sembrerebbe. Il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza del Tar del Piemonte che aveva disposto il riconteggio di 15mila schede delle ultime elezioni regionali, vinte da Roberto Cota con uno scarto minimo di 9.372 voti su Merecdes Bresso. Le operazioni stavano per concludersi e – stando ai risultati ufficiosi – la vittoria del leghista rischiava di andare in fumo. L’ovvio ricorso dei suoi legali contro questa decisione ha ottenuto di mandare in fumo il riconteggio.

Che la linea Cota potesse essere accolta dal Consiglio di Stato era un fatto che non si poteva escludere, poiché i criteri stabiliti dal Tar erano francamente discutibili: in pratica si sarebbe dovuto verificare quanti elettori delle liste “incriminate” avessero tracciato la croce sulla sola lista (voto nullo) o anche sul nome del presidente (voto valido). Insomma, due croci o niente. Ma i giudici di Palazzo Spada (e questo era meno prevedibile) sono andati oltre, dichiarando – anche se bisogna ancora attendere le motivazioni – sic et simpliciter che quelle due liste (“Al Centro con Scanderebech” e “Consumatori per Cota”) potevano, a differenza di quanto stabilito dal Tar del Piemonte, partecipare alle elezioni e basta.

Il problema era quello di aver omesso la necessaria raccolta di firme, sfruttando una norma della legge elettorale che lo permette qualora si dichiari il collegamento con una lista già esistente in Consiglio regionale. La lista di Deodato Scanderebech (ras torinese delle preferenze) nasce come “costola” dell’Udc, di cui Deodato era capogruppo; peccato che l’Udc sostenesse Bresso e che proprio per questo motivo Scanderebech fosse stato espulso dal partito. Discorso analogo per i “Consumatori”.

Partita chiusa dunque? Non esattamente. Il ricorso più pesante, su cui la giustizia amministrativa ha finora evitato di pronunciarsi, deve ancora entrare in scena: si tratta di quello contro Michele Giovine e la sua lista “Pensionati per Cota” che a marzo ha raccolto 27mila voti, tre volte tanto lo scarto Cota-Bresso. Bene, il signor Giovine (una volpe del sottobosco politico) sarà giudicato per falso con rito immediato (quello che il gip dispone quando la prova del reato è talmente evidente da rendere superflua l’udienza preliminare) di fronte al Tribunale di Torino il prossimo 15 dicembre. Secondo la Procura di Torino, infatti, le firme di 18 dei 19 candidati dei “Pensionati” sarebbero palesemente false e il più delle volte apposte all’insaputa dei candidati stessi (compresa una prozia di Michele Giovine, classe 1919). Un “vizietto” in cui Giovine era già inciampato nel 2005 (a quel tempo la sua era la “Lista Consumatori”) ma allora ne uscì grazie a una modesta oblazione consentita da una legge che di fatto depenalizzava il falso in materia elettorale (legge ad castam puntualmente cancellata dalla Corte Costituzionale). È noto che Giovine abbia offerto i suoi voti sia a Bresso che a Cota, ma lei li ha rifiutati, lui li ha accettati.

Del ricorso in sede amministrativa sulla Lista Giovine (i cui voti, in quanto lista “inesistente”, rischiano di essere annullati) il Consiglio di Stato discuterà il 25 gennaio. Solo allora Cota, se vincerà un’altra volta, potrà dire di essersi lasciato alle spalle questa storia. Nel frattempo, quando si tornerà a parlare di ricorsi, lumbard e dintorni – forti della vittoria di ieri – avranno buon gioco a gridare al reiterato complotto rosso-giudiziario, in attesa (o nella speranza) di tornare ad applaudire un giudice “giusto”, quello che decide a loro favore.

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