“Angelino, dove è il telefono?”, “Nell’angolo, Francis, usalo senza risparmio”. E Ford Coppola, che alle ‘conversazioni’ si abituò poi con Gene Hackman impegnato a rovistare nelle vite degli americani, lo  prese in parola. Tra una sessione e l’altra di sceneggiatura di Apocalypse Now, in parte scritto nel 1973 sul divano dell’abitazione romana di Angelo Infanti (Il film vide la luce tra romanzesche avventure produttive solo anni dopo), Coppola che lo aveva conosciuto sul set de “Il padrino” chiamò l’universo mondo. E la bolletta di quindici milioni di lire della Sip a suo nome, racconta Marco Giusti, “lo fece quasi svenire ”. Però Infanti, volato via ieri a 71 anni a Tivoli dopo un infarto, al termine di una curva avventurosa che lo aveva spinto tra sigarette, amori di ventura, bottiglie di vino, timbri di passaporto e interpretazioni ai confini del proprio mestiere non era incline al turbamento.

Aveva iniziato quasi per caso in un musicarello di Vivarelli all’alba dei ’60. “Mi dissero vieni, ci sono tutti, Mina, Celentano e io, senza riflettere, andai” per poi proseguire tra film minori “New York chiama Superdrago”, in cui il pauperismo si fondeva con il rischio del ridicolo. Ma Infanti voleva soprattutto divertirsi. “Gungala e la pantera nera”, set africano pieno di nudità e palmizi, lo scelse per la destinazione: “Io chiedevo: ‘ma dove si va?’. Poi aspettavo la risposta e se mi convinceva, davo il mio sì.” Quindi le chiamate del cinema alto, uno sfortunato Sidney Lumet del 1969, “La Virtù sdraiata”: “Fui l’unico attore ad andare a Cannes, si vergognavano tutti”, il guardaspalle di Al Pacino nella saga di Corleone e poi giù, in ruoli in cui la sua bellezza (lui, Venantino Venantini, Giuliano Gemma e altri, portatori sani di un fascino oggettivo) era funzionale al progetto. Quindi Emmanuelle e il secondo episodio della saga (che solo dopo avrebbe sconfinato nel soft-porno), un poliziottesco e poi la scoperta, a inizio anni ’80, della vena comica.

A presentarlo a Carlo Verdone e a offrirgli la possibilità di essere Manuel Fantoni fu Sergio Leone, l’amico di una vita, insieme a Bud Spencer che ieri, omone senza boe o appigli, piangeva a dirotto. E’ Carlo stesso a raccontarlo a tarda sera, indulgendo a una malinconia di fondo che anche nei suoi lavori più allegri è sempre presente, come ombra, monito, verità. “’E’ un personaggio incredibile’ mi disse Sergio Leone (il produttore dell’esordio di Verdone, Un sacco bello ndr.). ‘Fallo lavorare se puoi’. E Infanti, seduto, senza imbarazzi, iniziò a raccontare. Viaggi salgariani da fermo, sentimenti, epopee che mi colpirono molto. Così, dopo averlo ingaggiato per ‘Bianco Rosso e Verdone’ e averne parlato ai miei sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi, scrissi personalmente la sua parte e le battute di Borotalco. Una per una”.

Tra Verdone, i concerti di Lucio Dalla ed Eleonora Giorgi, Infanti interpretava ciò che era. Un figlio di puttana che coincideva alla perfezione con la canzone degli Stadio (che da ieri, senza interruzioni suona irriverente sul suo sito www.angeloinfanti.com). Un seduttore senza requie, né desiderio di pacificazione che sullo schermo salvava e concupiva Magda la moglie di un ossesso (Verdone stesso, un maniaco della puntualità che tormentava i tecnici dell’Aci: “Scusi se mi metto viaggio alle sette e trenta, riesco a lasciarmi alle spalle la perturbazione, diciamo alle spalle di Parma?”, con l’addetto, prontissimo alla risposta: “Ma va a cagher”.

Così Infanti si fece finalmente conoscere e dietro il primo successo, costruì l’apoteosi. Manuel Fantoni, cialtrone, millantatore, navigatore su “carghi battenti bandiera liberiana” in Borotalco, con le foto dei suoi amici americani alle pareti (e con Gregory Peck, con cui aveva lavorato, era davvero in confidenza). “Così lo feci conoscere a Benvenuti e De Bernardi e scrissi per lui il ruolo di Manuel Fantoni, battuta per battuta”. Nel film, l’autoironia, tratto distintivo di Infanti raggiungeva il parossismo e certe frasi: “Nun è vero niente, t’ho raccontato un sacco de fregnacce” sono rimaste nella memoria. Lui, Infanti, settantunenne di frontiera, seduttore della provincia laziale cresciuto alla scuola degli ultimi tanghi a Zagarolo di fronte alle lacrime avrebbe provato a invertire il flusso. Era uno di quelli che spaccava bicchieri ai funerali e quando l’aria si faceva seria, o peggio seriosa, svicolava dal retro. Nel dissacrare, trasformare in farsa la tragedia, aspirare un cubano e poi ricominciare la caccia sentimentale in piedi sugli stivali, ai bordi dell’autostrada, aveva pochi rivali. E però, Angelo Infanti sul carro nomade della recitazione, non era salito per caso. Carriera diseguale, disordine voluto perché concepiva cinema e vita come le facce opposte ma convergenti di un cubo di Rubik. Un dilemma irrisolvibile, qualcosa che andava esplorato a fondo e goduto intensamente, lasciando nell’angolo le domande.

Ricky Tognazzi, che lavorò con lui ne “La Scorta” è dispiaciuto. Avendo elevato fin da bambino (in macchina con suo padre Ugo, in un memorabile episodio de “I mostri”) l’antiretorica a unica religione, non può derogare stavolta: “Quanti anni aveva? Possiamo tranquillamente moltiplicare per due. Angelo era un uomo libero e non si è mai risparmiato. Strafumava, beveva, non l’ho mai visto dormire e appena poteva, tornava a Zagarolo. Preferiva la campagna, l’orto e la compagnia degli amici a qualunque contratto, occasione o scialuppa per arricchirsi”. E poi, siccome gli preme: “gli volevo davvero bene”, sbarra aperta sugli aggettivi. “Simpatico, estroverso, sardonico. Uno che se vedeva un collega darsi arie gli girava immediatamente le spalle. Semplice. Adorato e stimato dai registi americani, da gente come Vincent Minnelli e a pensarci bene, l’apolide Infanti era qui per caso. Il calcolo gli era alieno, non pensava mai a quello che diceva, alle possibili conseguenze. A volte non pensava proprio”.

I fotogrammi di Carlo Verdone vengono fuori uno dopo l’altro. “Era un mio grande amico e con lui, dopo aver detto addio a Mario Brega e ai miei compagni di un tempo, si chiude per sempre una pagina non più ripetibile.-Sono triste. Per Borotalco Angelo prese il David di Donatello come migliore attore non protagonista. Scese dal palco e commosso mi abbracciò: “A Carlè, famme ‘na promessa, dimme che lavoramo sempre insieme”. Non fu possibile: “Ma lo feci conoscere a Sordi che ne utilizzò talento e disincanto In “In viaggio con Papà”. Si ferma, riparte: “A ogni aneddoto, si apriva uno scenario improbabile, affascinante in cui distinguere il vero dal falso era un’impresa. Saresti stato ore ad ascoltarlo”. Lo sa bene Marco Giusti che lo aveva intervistato per Stracult, già canuto, lievemente appesantito, meno ribaldo di qualche anno prima. Negli ultimi mesi, grazie a conoscenze comuni, Giusti aveva avuto modo di frequentarlo assiduamente: “Era fantastico e non lo dico perché la morte rende migliore chiunque. Aveva incontrato chiunque, cenato con Marilyn, “Una zozzetta senza qualità”, navigato felice”. Le donne, un pianeta senza limiti o pruderie: “Fino ai 50 mi avevano rapito loro, poi iniziai a scegliere io”. Era un vezzo, anche innocente, perché poi a casa, lo aspettava la famiglia. L’ancoraggio. L’abitudine felice. Si era anche sposato, ancora giovanissimo negli Usa, con un avvocato di Los Angeles. Clandestinamente. Frammenti di memoria, pagine cancellate. Giusti tace, riprende a parlare, si perde nella descrizione di aneddoti personali. Una geografia senza riferimenti certi. Sorride. L’unico addio che Angelo Infanti avrebbe approvato senza riserve.

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