Arrivano in gruppi, scendono dai treni, dai pullman, si radunano nella piazza della stazione ferroviaria, punto di partenza del corteo. Sono il popolo degli immigrati africani, dei “senza diritti” che affollano le degradate periferie domiziane e della provincia casertana. Arrivano da Castel Volturno, da Casal di Principe, da Pianura, da Quarto, da Scampia, da Villa Literno. Dalle capitali del caporalato. Ognuno con la sua storia, col suo carico di povertà e di disagio, con una famiglia da mantenere in Africa o qui in Italia. Ognuno a combattere quotidianamente una guerra per la sopravvivenza e per strappare il permesso di soggiorno. E con esso la dignità di poter dire a testa alta “io esisto, io non devo nascondermi”.
Il giorno dopo lo sciopero delle rotonde stradali e dei cartelli “non lavoro per meno di 50 euro”, rieccoli, stavolta tutti insieme a Caserta, coordinati dal centro sociale dell’ex Canapificio e dai movimenti antirazzisti (i sindacati non hanno aderito alla manifestazione), per marciare pacificamente verso il palazzo della Prefettura, deve una delegazione verrà ricevuta dal prefetto.
Il sogno “permesso di soggiorno”

In duemila scandiscono slogan e ballano musica etnica per reclamare il rilascio dei permessi di soggiorno. Pratiche ferme anni tra pastoie burocratiche e leggi anti immigrazione. Insieme alla crisi e ai licenziamenti in atto al Nord, sono le cause di una quantità industriale di “irregolari di ritorno” che di nuovo affollano le campagne casertane. Immigrati col permesso scaduto e non rinnovabile senza contratto di lavoro, che in teoria dovrebbero prima tornare nel paese di origine. Il popolo colorato riceve la solidarietà del sindaco Nicodemo Petteruti (Pd): “Caserta vi dà il benvenuto, un Paese civile dovrebbe superare e risolvere le vostre difficoltà”. E del vescovo Raffaele Nogaro: “Gli immigrati sono miei fratelli, sono miei figli. La Curia è al loro fianco per proteggerli dalle insidie di questo territorio”. Nel corteo ci sono padre Alex Zanotelli, don Vitaliano della Sala, l’ex deputato “disobbediente” Francesco Caruso.
I volti mostrano i segni di storie dolorose. A reggere lo striscione dell’associazione “Jerry Masslo” (sudafricano rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziali, ucciso nel corso di una rapina da giovani balordi di Villa Literno nel 1989) di Castelvolturno, creata dall’ex sindaco comunista Renato Natali, c’è chi ha una storia incredibile da raccontare, il suo nome è Lamin.
Ventitré anni da “clandestno”
Lamin ha 46 anni e un cognome impronunciabile che ci prega di non rivelare perché non ha il permesso di soggiorno. Eppure vive da 23 anni in Italia. Viene dal Senegal. Abita a Castelvolturno, in una casa insieme ad altri 4 immigrati, per un fitto di circa 100 euro a testa. Le bollette sono intestate a uno di loro che il permesso ce l’ha. Lamin ha conosciuto il carcere per spaccio di droga, poi il riscatto del lavoro nelle associazioni di volontariato per il recupero dei disabili. Ha una ex moglie in Africa, una ex compagna conosciuta nel Nord quando lavorava in fabbrica, una figlia che vive nel Continente Nero e che vede solo coi programmi di video-chiamate su Internet: “Arrivai a Villa Literno nel 1987, all’epoca ci chiamavano per la raccolta dei pomodori”. Poi l’emigrazione a Verona, l’impiego in fabbrica, i guai giudiziari, “perché ero giovane e volevo divertirmi”. E col carcere il permesso di soggiorno diventa un traguardo difficile. Così quando anche il lavoro viene a mancare, Lamin torna dagli amici neri del casertano. E si inventa una nuova vita con l’attivismo nella “Jerry Masslo”, in Libera e in una cooperativa convenzionata con l’Asl di Aversa, grazie alla quale guadagna circa 400 euro al mese lavorando 3 giorni alla settimana. Si impegna per strappare le prostitute nere dalla strada e per questo viene sequestrato e rapinato di tutti i suoi averi in casa da un clan di africani. Li denuncerà e ne farà arrestare otto. Così, ottiene un permesso di soggiorno per motivi di merito civile. Ma è scaduto, e non riesce a rinnovarlo. “Mi sento italiano e amo gli italiani – dice Lamin – e io come i miei amici africani potremmo dare tanto per questo Paese. Ma odio i politici e mi sento tradito. Non sono un buon esempio per noi, sono corrotti e ci istigano a fare il male. Hanno fatto leggi da Ku Klux Klan”.
Dalle finestre di una scuola dell’infanzia, i bambini salutano il corteo e vengono ricambiati. Sono cinque, ce n’è uno di colore. Un’operatrice ci spiega: “Siccome non hanno la documentazione a posto, i figli degli immigrati irregolari devono pagare mensa e scuolabus come se appartenessero alle fasce più ricche di reddito”. L’ennesima assurdità di uno Stato che scarica sui più deboli e indifesi le colpe degli altri.

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