Sono le otto di sabato mattina quando finalmente arriva la notizia tanto attesa: la perforatrice T130 ha raggiunto il rifugio in cui da oltre due mesi sono sepolti vivi i 33 minatori di San José, nel nord del Cile. Dall’accampamento Esperanza si alza un grido di gioia, i tecnici alzano le dita in segno di vittoria, i familiari e gli amici dei minatori applaudono e si abbracciano commossi.

Sono passati 64 giorni da quando una frana ha provocato il parziale crollo della miniera San José, 800 chilometri a nord di Santiago, intrappolando sotto terra i 33 minatori che erano di turno in quel momento.
Diciassette giorni dopo, il 22 agosto scorso, una sonda li ha raggiunti. “Estamos bien los 33” sono riusciti a scrivere su un foglietto di fortuna. Da allora è iniziata un’interminabile attesa e scattata una delle operazioni di salvataggio più imponenti della storia: tre diverse macchine perforatrici in azione 24 ore su 24 nel tentativo di individuare la via più breve per raggiungere i minatori; decine di ingegneri e tecnici; esperti della Nasa; medici e psicologi; ministri e giornalisti da tutto il mondo.

Sabato la prima fase delle operazioni, la più difficile, si è finalmente conclusa. Il cosiddetto Plan B ha funzionato, la via d’uscita è pronta. Adesso i tecnici dovranno decidere se intubare il pozzo con uno speciale rivestimento in acciaio, in modo da rendere più stabile la roccia e facilitare la discesa delle capsule prima di iniziare il riscatto vero e proprio, oppure se procedere senza rivestimenti. Sembra ormai certo che verranno comunque rivestiti almeno i primi cento metri di tunnel, quelli maggiormente a rischio di frane. Se tutto andrà come previsto, in circa tre giorni il rivestimento dovrebbe essere concluso. In questo caso entro martedì potrebbero venire calate le capsule che riporteranno in superficie i minatori. Se invece gli ingegneri optassero per “incamiciare” il tunnel per intero – come si dice in gergo – il salvataggio vero e proprio dei minatori potrebbe slittare di altri 8-10 giorni.

Mentre fuori tutto l’accampamento è in festa, dall’oscurità del loro rifugio i 33 lavorano a turno per sgomberare le macerie e facilitare le operazioni di soccorso. Hanno chiesto però un pranzo speciale. In fondo oggi è festa specialmente per loro. Ma il pranzo festivo sarà l’unica concessione alla routine quotidiana. Non possono essere interrotti né l’intenso allenamento fisico né i contatti con gli specialisti che vigilano sull’equilibrio psico-fisico dei minatori “Nei prossimi giorni occorrerà molta pazienza e sarà più facile cedere all’ansia”, spiega Alberto Iturra, lo psicologo che mantiene quotidianamente un contatto con i 33. “Non possiamo permetterci che qualcuno crolli proprio all’ultimo”.

“Sono forti, ce la faranno”, dice trattenendo a stento l’emozione Alfonso Avalos, che sotto la miniera ha i due figli Renàn e Florencio. “Presto potranno riabbracciarci ma in questo momento sanno che devono mantenere il sangue freddo”.
“Adesso iniziano i colori”, si lascia andare la moglie di uno dei 33. “Sono stati due mesi durissimi, questi ultimi giorni avranno tutto un altro sapore”.
Molti familiari dei minatori hanno passato la notte all’accampamento in attesa che arrivasse la notizia della fine degli scavi. “Non mi muovo da qui finché non mi restituiscono i miei ragazzi”, assicura Avalos, che ha montato una tenda a pochi metri dal refettorio e in questi due mesi non è quasi mai tornato a dormire a casa.

Otto ore prima della “liberazione” i minatori dovranno osservare un rigoroso digiuno, in modo da evitare disturbi (per esempio il vomito) durante la risalita. E però non verrà loro somministrato alcun farmaco: “E’ necessario che siano il più possibile lucidi”, ha spiegato Jean Romagnoli, specialista in medicina dello sport e incaricato dell’allenamento dei minatori. “In caso di imprevisti è fondamentale che possano collaborare”.

Presto verrà definito anche l’ordine di risalita dei minatori. Per primi usciranno quelli che stanno bene, quindi coloro che sono in condizioni di salute precarie; per ultimi i più forti. L’ultimo a rivedere la luce del sole sarà Luis Urzùa, il capo turno che ha fatto da leader e stabilito una ferrea disciplina per sopravvivere in questi due lunghi mesi sotto terra.

di Anna Vullo – inviata in Cile

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