Quante volte il vostro medico di base vi ha trattati come “malati immaginari”? Quante volte, uscendo da quell’ambulatorio, avete dovuto comunque fare i conti con ansie, dubbi e paure? La psicosomatica contemporanea, branca di studio a cavallo tra la psicologia e la medicina, si occupa proprio di questo, producendo una vasta gamma di ricerche e sperimentazioni. “Umanizzare” la pratica medica, può voler dire anche mettere fisicamente nella stessa stanza medici di base e psicologi. E’ quello che sta facendo da 10 anni il Professor Luigi Solano, docente di Psicosomatica della facoltà di Psicologia all’Università la Sapienza di Roma, che racconta: “La nostra esperienza  ha aiutato molte persone a scoprire che spesso la malattia è strettamente collegata alla particolare situazione che si sta vivendo. E questo può avere un effetto molto più potente di qualsiasi farmaco”.

Cosa vi ha spinto a intraprendere questa esperienza di “copresenza” di medico e psicologo nell’ambulatorio di base?
Bisogna partire da due considerazioni. Da una parte i medici fanno sempre più fatica a occuparsi del paziente in quanto persona, e quindi ad accogliere tutta quella quota di disagio (che ormai è stimata almeno al 50%) che pur presentandosi come somatico, nasconde in realtà tutt’altre origini, che sono di natura psicosociale. Dall’altra bisogna fare i conti con i pregiudizi molto forti che ancora gravano sulla psicologia clinica. Dal medico siamo abituati ad andarci tutti. Ce l’abbiamo da quando nasciamo, e ci viene assegnato gratuitamente. Con l’idea che siamo anche tenuti ad andarci quando stiamo male. Dallo psicologo, invece, c’è l’idea che ci vanno solo alcune persone un po’ particolari. Il risultato è che, parafrasando la famosa battuta di Woody Allen: “Si va dallo psicologo soltanto dopo essere stati a Lourdes”.
Lo studio medico quindi ci è sembrato il luogo elettivo per inserire la figura dello psicologo, con il compito di affiancare il medico e raccogliere la domanda di tutti coloro che si presentano. Questo ci consente di intervenire nelle prime fasi del disagio.

Ci descrive la ricerca vera e propria?
La nostra esperienza è stata condotta all’interno della Scuola di specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università “La Sapienza” di Roma, che dipende dal Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, ed è stata svolta come forma di tirocinio per gli specializzandi. Si tratta di psicologi laureati e abilitati che io supervisiono regolarmente, discutendo tutti i casi.
La nostra esperienza va avanti ormai da dieci anni. Hanno partecipato 11 psicologi, sono stati coinvolti 8 studi medici, ciascuno per la durata di 3 anni.
Lo psicologo è presente una volta a settimana nello studio medico e vede tutti i pazienti, tranne quelli che fanno esplicita richiesta di essere visitati unicamente dal medico (questa evenienza si è presentata solo 4 volte). Questa impostazione si è dimostrata già sufficiente per produrre dei risultati e degli effetti.
Lo psicologo ascolta quello che la persona dice e interviene nel contesto della visita. In alcuni casi, non frequenti, propone degli incontri a parte (al massimo dieci) durante i quali sviluppa il problema insieme alla persona. In un numero ancora più ridotto di casi si arriva a fare un invio il più possibile corretto a specialisti della salute mentale.

I problemi vengono quindi già “risolti” nel contesto ambulatoriale?
Il nostro scopo non è primariamente quello di curare le persone, ma di dare un senso al sintomo che viene portato, soprattutto se esso è di natura somatica, all’interno del contesto di vita della persona. Questo è nella maggior parte dei casi sufficiente ad arrestare un percorso medico che porta a spese inutili, a un’etichetta di malato, o addirittura – quando la persona non trova ascolto – a una escalation di disturbi sempre più gravi. Il senso primario del nostro lavoro è far sì che la persona esca dallo studio medico non pensando di avere una malattia ma pensando di avere un problema.
Spesso abbiamo sentito il paziente dire: “Da un mese ho delle vertigini, vorrei fare una Tac”. Se questo problema non trova un ascolto adeguato, il medico prescriverà la Tac. Se disgraziatamente questa dovesse rilevare qualche reperto casuale, si rischia di arrivare a sottoporsi a ulteriori e più invasivi esami innescando un circuito perverso che può rivelarsi anche rischioso per il paziente.

Come hanno reagito i medici alla presenza dello psicologo nel loro “santuario”?
Intanto, trattandosi di persone che hanno accettato di aderire all’esperienza, non possiamo considerarli un campione rappresentativo della categoria… Abbiamo evitato medici che avessero specializzazioni in psicologia. Il problema più frequente è stata la tendenza del medico a identificare i casi “da psicologo”. Ma il nostro compito è quello di identificare il disagio che non si vede.

E i pazienti?
Una recente inchiesta dell’Ordine degli psicologi del Lazio ha mostrato che solo il 5% delle persone è mai entrato in contatto con uno psicologo nell’arco dell’intera vita, comprese tutte le occasioni di formazione, selezione aziendale e così via. Si tratta di una quota bassissima. In una situazione così difficile, nel momento in cui lo psicologo sta lì per tutti, e non si corre il rischio di venire etichettati, cambia tutto. Le persone si sentono improvvisamente legittimate a parlare di cose che non siano il disagio somatico e i sintomi.

Quanti pazienti hanno partecipato all’esperienza?
In tre anni ogni psicologo ha registrato l’incontro con 700 persone su 1500 circa. Tra queste è stato riscontrato un disagio psicosociale a volte anche piuttosto serio nel 40-60% dei casi. Questo dato corrisponde alle stime della quota del disagio non di origine organica che arriva al medico di base che sono sempre state fatte, a cominciare da Balint negli anni ‘50. Il disagio riguarda per lo più problematiche coniugali, familiari, tra genitori e figli, le dinamiche con la famiglia di origine o le problematiche legate alle fasi del ciclo di vita: scuola, lavoro, pensionamento. Insomma, tutti i passaggi cruciali della vita.
Ciascuno psicologo è riuscito ad effettuare un centinaio di interventi con risultati abbastanza soddisfacenti. Si tratta di numeri che non hanno niente a che fare con l’utilizzo che viene fatto comunemente della psicologia, che finisce per occuparsi quasi esclusivamente dei casi che richiedono un lavoro molto approfondito. Nel nostro esperimento invece può essere sufficiente un intervento molto limitato per cambiare il corso degli eventi.

Siamo quindi nel campo della prevenzione.
Sì. Siamo sicuramente più nell’ambito della prevenzione che in quello del trattamento della patologia.

Esistono esperienze simili in altri paesi?
Sappiamo di esperienze di colloqui congiunti con lo psicologo, anche in termini di formazione universitaria, ma sempre in casi selezionati. Quando il medico cioè ritiene che quel caso sia per lo psicologo. Questo lascia fuori tutta una quota di persone che potrebbero averne bisogno, come i giovani affetti da patologie organiche serie. Noi ci rifacciamo al modello “biopsicosociale” e pensiamo che qualunque tipo di malattia, anche quella realmente organica, sia legata alla situazione di vita.

Avete riscontrato variazioni nella quantità di farmaci prescritti dal medico?
Abbiamo avuto difficoltà ad ottenere dati sulla spesa sanitaria dei medici che hanno partecipato all’iniziativa. In un caso che mi fa piacere citare – il dottor Cappelloni di Rieti – siamo riusciti ad analizzare la spesa sanitaria nel 2007, quando lo psicologo non c’era, e a paragonarla con quella del 2009, dopo due anni di “copresenza”. Abbiamo riscontrato una riduzione della sola spesa farmaceutica (escludendo quindi tutte le spese per esami di laboratorio), sul totale degli assistiti, di 75.000 euro l’anno, rispetto a una spesa totale di circa 400mila euro.

Una riduzione dei costi pari quasi al 20%. Cosa comporta questo?
Intanto un grosso danno per le case farmaceutiche. Non mi soffermo su questo dato e sulle conseguenze negative che potrebbe avere per il nostro progetto. Mi sembra comunque importante osservare che con questo risparmio si può pagare lo stipendio a due psicologi, ciascuno dei quali potrebbe coprire due studi medici. Immaginando una presenza di un paio di turni presso ciascuno studio medico, si riesce a coprire un gran numero di assistiti.

Alla fine di questi tre anni, come reagivano i pazienti alla “scomparsa” dello psicologo?
Questo è stato un bel problema. I pazienti, ma anche i medici, sono sempre molto dispiaciuti. D’altra parte i tentativi fatti finora per trovare una forma di retribuzione che ci consentisse di prolungare la permanenza degli psicologi non sono andati a buon fine.

Cosa deve succedere perché questo esperimento si possa trasformare in realtà?
Innanzitutto si dovrebbe fare una sperimentazione ufficiale, concordata con la Asl, con persone già formate, su almeno 4-6 ambulatori, per poter verificare in modo più preciso i benefici su pazienti e medici, e gli effetti sulla spesa sanitaria.

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