Era solo aprile. Ma sembrano anni. Se penso all’euforia che percorreva le strade di Perugia nella scorsa primavera e la confronto con la situazione attuale, un po’ mi viene il magone. Il giorno in cui Paul Steiger al Festival Internazionale del Giornalismo ci ha parlato di Propublica (www.propublica.org) e del “modo di produzione” della notizia separato dagli interessi delle proprietà editoriali, dalla politica e dalla pubblicità, erano anche i giorni in cui una piccola folla di ragazzi non faceva altro che discutere della possibilità di riprodurre in Italia quel modello.

Che cosa è successo in questi pochi mesi? Da una parte ci siamo impegnati contro la cosiddetta legge Bavaglio, dall’altra ogni ipotesi di iniziativa di “giornalismo web”, giornalismo diffuso e crowdsourced è letteralmente scomparso non solo dai media, dove non c’è mai stato, ma anche dai monitor di noi “popolo della rete” (ma esiste un “popolo della rete”? Dovremmo cominciare a liberarci di certe convenzioni linguistiche). Tutto è scomparso, tutto è andato perduto. La nostra memoria breve è rimasta attaccata ai post-it della battaglia contro la legge intercettazioni.

Del resto, quando si dice “riportare indietro”, nel linguaggio politico questo si intende. Che ci si era spinti fino a vedere nuove possibilità e all’improvviso queste novità scompaiono perché bisogna difendere il minimo (o il massimo), la libertà di espressione. Ma anche in quella battaglia non è mancato un altro segnale d’allarme. Quando abbiamo visto i media, i politici, le persone più impegnate considerare noi, blogger e cittadini, solo “compagni di lotta” e non una parte del nuovo sistema della comunicazione. È così vero, questo che scrivo, che si è arrivati al punto di non accorgersi che c’era un articolo del decreto che riguardava i blog.

I blog, poi, qualcuno ne ha sentito parlare? Vogliamo dire con chiarezza che non c’è stata finora una vera fase innovativa dei media cui abbiano dato vita i blogger? I blogger italiani hanno cercato e cercano tuttora la cooptazione “nel sistema”. Non vogliono cambiare le regole, vogliono stare dalla parte giusta delle regole. Cioè dentro l’establishment. Prego di leggere tutto questo senza nessuna cattiveria, nessun malanimo. Ma le cose così stanno. Altrettanto oggettivamente va detto che ci sono nuove iniziative di giornalismo web che non hanno innovato. Ce ne sono di esistenti, ce ne sono di prossima uscita. A me piacciono. Ma hanno innovato?

Mi pare che si siano limitati a cambiare le pratiche redazionali. Se ci pensate è su questo che si è sempre appuntata quel poco di critica ai media mainstream che si è riusciti a produrre in Italia. Le pratiche redazionali superate, il rifiuto di “essere” il web e scrivere nella sua lingua e quindi certi risultati grotteschi di questo atteggiamento. Ma scusate se insisto, a parte che l’esperienza ci dice che poi quando c’è il buon vecchio giornalismo, la gente accorre e legge, anche su carta, a me pare che si sia perso ogni rapporto con la questione principale. Che è la proprietà del mezzo di produzione. Il rapporto con l’editore. La natura stessa dell’editore.

Ripeto che auguro ogni fortuna ai tentativi che ci sono in giro e a quelli che ci saranno, ma non mi pare che abbiano cambiato poi molto su questo punto. Si è cercato un editore. Si sono cercati dei finanziatori. Il che poi ti lega comunque a una logica economica classica, dove bisogna fare ricavi e soprattutto fare utili. Si comincia giornalisti e si finisce controllori di gestione. Si comincia con l’idea di fare l’Huffington ma ci si scosta dal modello in maniera significativa. Io credo che dobbiamo tornare al problema del modello: che deve essere sostenibile, senza perdite sistematiche perché non siamo nel parastato, fondato sull’attenzione ai costi e alla necessità di coprirli.

Il buon giornalismo costa. Sempre. Anche se non c’è bisogno di pagare gli inviati prime donne e i loro megastipendi. Il buon giornalismo costa anche se lo fai con i blogger, perché forse è venuta il tempo di mettere in pratica l’idea di allontanarsi dal modello basato esclusivamente sulla pubblicità.

Il modello non è in perdita ma, certo, di soldi ha bisogno. Allora, perché non pensiamo ad una Knight Foundation (www.knightfoundation.org) italiana? Una fondazione americana no-profit che finanzia progetti editoriali di varie tipologie da Propublica a Spot.us passando in Europa per cafebabel.com (il primo newsmagazine europeo online pubblicato in 6 lingue che ha ricevuto nel 2009 un finanziamento di 250mila dollari). Come si selezionano i progetti da finanziare? «We choose… to seek opportunities that can transform both communities and journalism, and help them reach their highest potential. We advance journalism in the digital age and invest in the vitality of communities… We focus on projects that promote informed, engaged communities and lead to transformational change. We believe that information is a core community need. We want to ensure that all citizens get the information they need to thrive in a democracy and act in their own best interest. And we ask, as we evaluate opportunities and grants, “Is this truly transformational?”». (Alberto Ibargüen, Presidente e CEO Knight Foundation). I cinque elementi chiave per la selezione in sintesi sono: 1) Discovery of the facts. 2) The vision to see what’s possible. 3) The courage to push for change. 4) The know-how to get it done. 5) The tenacity that gets results.

In questo paese anche gli imprenditori si lamentano dell’assenza di una editoria pura. Manca? Bene, si finanzi una fondazione e ci si ritiri. Altrimenti, se si pensa di condizionare il progetto, di starci dentro, di far sentire i propri interessi, be’ quella è di nuovo la solita vecchia cara minestra dell’editoria impura. Che la finanzino i cittadini una nuova Knight Foundation. Non abbiamo blaterato per anni di crowdsourcing e crowdfunding? Vediamo se siamo pronti, se la mitica “gente” è pronta a dare pochi euro per permettere ad un progetto simile di vivere. Niente soldi pubblici, certo, ma non potrebbe una simile iniziativa essere ammessa al finanziamento attraverso il 5 per 1.000 nella dichiarazione dei redditi? Potrebbe. Certo, la sento forte e chiara l’obiezione. Anzi ne sento due. La prima è che i media mainstream hanno una loro funzione e non possono essere sostituiti da un esercito di dilettanti. La seconda è che il dilettantismo non funziona, ci vuole professionismo. Forse sono due facce dello stesso pensiero. E sono due errori.

Prima obiezione. Nessun esercito di dilettanti è alle porte dei media mainstream. In Gran Bretagna la pubblicazione dei dati dell’amministrazione statale ha prodotto un gigantesco caso di collaborazione da parte di cittadini-indaganti e giornali che ne hanno ospitato il lavoro. Ma la stessa Propublica non fa che produrre e pubblicare proprie inchieste sui maggiori giornali americani.

La seconda obiezione è che ci vogliono i soldi, ci vogliono per pagare i professionisti. Abbiate pazienza, ma avete una idea di quanti ragazzi vorrebbero oggi fare i giornalisti in questo paese? Avete una sia pur pallida nozione di quanti di loro considerino il reporting investigativo come un valore? Sono migliaia.

Allora, fermo restando che il giornalismo civico può essere per tutte le età, può essere questa l’esperienza nella quale i giovani si misurano, fanno esperienza, la vera scuola di giornalismo – lo so, ci sono le scuole di giornalismo, ne ho frequentata, ma non è in quelle aule che si soddisfa la sete di professione che c’è in questi giovani. Sto parlando di un giornalismo no-profit come fase di formazione di nuovi giornalisti destinati al mainstream. Anche un luogo di competizione, che è una cosa sana, se permette ai bravi di emergere in un luogo dove i raccomandati non sono previsti. Ma soprattutto un luogo dove non si bada al nome delle aziende coinvolte in qualche inchiesta e non si va a vedere se per caso non ci sia la minaccia del taglio degli investimenti pubblicitari.

Però non il giornalismo civico come attività solo giovanile, come se fosse il tirocinio dei giovani medici in ospedale. Non è un caso che i blog migliori di questo paese siano quelli in cui professionisti giovani, bisognosi di farsi conoscere, ma già consolidati nella preparazione e nelle abilità del loro campo, insomma gente fra i 30 e i 40 anni, danno il meglio di sé e della loro capacità di analisi.

Questo è professionismo? No, ma mi pare del tutto “razionalmente economico” che una persona con queste caratteristiche dedichi una quota del suo tempo ad un’attività senza finalità di immediato profitto ma ispirata ad uno scopo civico e dalla quale possa ricavare in cambio visibilità, credito, occasioni di collaborare a testate maggiori oppure nuove opportunità nel proprio campo specifico di attività. È un modo per muovere le cose, per rendere la società più dinamica. Non diciamo tutti che l’Italia è un paese fermo? Mentre scrivo vi guardo leggere e vedo un altro sorriso di scetticismo sulle vostre bocche. L’argomento è: di cosa si occuperanno mai dei “dilettanti” come questi in una situazione nella quale da qualche tempo i duri sono scesi in campo ed hanno cominciato a giocare.

Questa idea del giornalismo come alta specializzazione ha a che fare con l’idea di una società chiusa. Opaca. Dove la notizia è sempre, per organizzazione sociale, coperta dal segreto. Poi magari il giornalista specialista succede che diventi un complice del potere, un suo accompagnatore o sempre più un suo killer specializzato, un suo mazziere, un suo informatore riservato. Ma se pensiamo a una società il cui destino è aprirsi, allora il ruolo del giornalismo civico cresce. Io credo che qui ci sia un contenuto “politico”. La trasparenza in questo paese è sofferenza del potere. L’opacità è l’unico desiderio di chi comanda. Si vede la pubblicità degli atti, dei redditi, delle cose della pubblica amministrazione attraverso un velo di odio ed allergia che sono politicamente assai significativi.

Ebbene voglio combattere, attraverso la formazione di giornalisti civici, per la trasparenza come valore e obiettivo.

Non penso di poter sconfiggere manovre raffinate, nelle quali mettono le mani anche gli specialisti della disinformazione e vere e proprie spie di professione, con i ragazzini. Penso che possiamo far crescere un altro giornalismo. Etico ma non ingenuo. Penso che un giornalista ragazzino possa andare in una banca e verificare se vende titoli tossici ai pensionati. E che quel ragazzo possa sapere cosa fare e cosa chiedere perché dietro c’è qualcuno che gli ha spiegato che cos’è un titolo tossico e come riconoscerlo.

Va bene, lo ammetto, tutto somiglia molto a Robin Hood. Ma questo è il tempo del Principe Giovanni e di una numerosa schiera di sceriffi di Nottingham. A me il giornalista sceriffo di Nottingham non piace. Faccio il tifo per Robin Hood.

da Caffeina 03/2010
di Arianna Ciccone

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