Oggi ho guardato negli occhi un licenziato.

Anzi, meglio, ho guardato negli occhi tre ragazzi che sono stati licenziati da una ditta che assisto come Consulente del Lavoro. Non mi era mai capitato di partecipare in modo così diretto, in tanti anni che svolgo questa professione.

Certo, lettere di licenziamento ne ho scritte tante e per tanti motivi. Ma non mi sono mai trovato lì, davanti al lavoratore, mentre si sente dire dal proprio titolare: “L’azienda è in crisi, non sappiamo più cosa fare, siamo costretti a ridurre il personale e tu sei tra coloro che abbiamo deciso di licenziare”.

Avevo tentato di prepararmi. Io e il datore di lavoro, imprenditore valido e persona degna della massima stima, che ha provato di tutto prima di arrivare a questa decisione, avevamo discusso a lungo per trovare le parole più appropriate da usare in una circostanza del genere.

Lui è stato in gamba: mentre ha comunicato ai tre la decisione, si è capito che era sinceramente dispiaciuto e la voce a tratti gli si è rotta per l’emozione (sono mesi che non dorme per il pensiero…). Ma non c’è stato paragone con lo sgomento visto negli occhi del ragazzo che, dopo 15 anni di lavoro, ha saputo, alle 10.30 di un normale giovedì mattina, che da quel momento una delle sue poche certezze, forse l’unica, si era infranta nel volgere di pochi istanti.

Le braccia gli sono cadute sui fianchi, il viso è sbiancato e, tra le poche parole pronunciate in stato confusionale, ricordo bene solo: “Devo dirlo a mia moglie… Come facciamo adesso?”. E io ero lì – mentre avrei voluto essere chissà dove, piuttosto – a spiegargli tecnicamente che adesso avrà due mesi di preavviso pagato, potrà usufruire della disoccupazione, potrà iscriversi nelle liste di mobilità e cercare un lavoro dicendo alle aziende che non dovranno pagargli contributi per due anni. Un’opportunità… se qualcuno lo assumerà. Ma lui non mi ascoltava. Lo capivo bene.

Gli è caduto il mondo addosso. Cosa vuoi che gliene freghi a uno appena licenziato dei miei suggerimenti da primo della classe!

Lui sarebbe dovuto andare a casa a mezzogiorno, aprire la porta, salutare la moglie e dirle: “Cara, ho 41 anni, non ho più un posto di lavoro, sono stato licenziato”.

Ci siamo lasciati stringendoci due mani tremanti.

Non riuscivo a immaginarmi come avrei potuto affrontare altre due situazioni analoghe.

Io non so che faccia avessi quando è entrato il secondo operaio.

Sta di fatto che lui ha ascoltato con estrema dignità le parole cosi amare che gli avrebbero cambiato la vita e, con l’umiltà di cui solo gli operai sono capaci, ha detto una cosa inaspettata, quasi sentisse il bisogno di darmi una mano: “Sì, lo so, c’è una crisi molto grossa, non vi preoccupate per me, io me la caverò!”. E poi, durante il saluto, ha trovato la forza per aggiungere “grazie”.

Il terzo era un ragazzo di 30 anni. Lavorava da quando ne aveva 15. Per lui era stato facile trovare lavoro: non gli piaceva andare a scuola e la passione sfrenata per i motorini l’aveva spinto a trovare occupazione nell’officina più vicina a casa. All’azienda era parso straordinario il fatto di vedere un ragazzino desideroso di imparare un mestiere nel quale bisognava sporcarsi le mani.

 Adesso a lui non è sembrato vero ascoltare quelle parole mai immaginate.

Perché io? Ho fatto qualcosa che non va? Ho il mutuo da pagare…”.

Sapevo che sarebbe arrivato anche il momento “del mutuo da pagare”, me l’aspettavo. In televisione, nelle rare trasmissioni in cui fanno parlare persone che perdono il lavoro, è una considerazione che non manca mai.

Qui, però, le distanze erano ravvicinate. La voce usciva da una persona seduta davanti a me e vi assicuro che la cosa è diversa, come d’altra parte lo sono tutte le cose che si toccano con mano.

Quanto ti manca per il mutuo?”, gli ho chiesto.

Vent’anni”, mi ha risposto.

Anche lui, incredibilmente, ha cercato parole per sdrammatizzare, dimostrandosi ottimista. Si è detto sicuro di trovare facilmente un nuovo lavoro. Io non posso far altro che rendermi disponibile ad aiutarlo qualora senta qualcosa di adatto a lui. So che non sarà facile.

Nella ricca Parma del prosciutto e del Parmigiano-Reggiano, perfino le aziende del settore alimentare cominciano a scricchiolare. Non parliamo, poi, dell’edilizia, che sconta il crollo del sogno megalomane di sindaci megalomani che pensavano di soddisfare i propri sogni di grandezza trasformando Parma in una giungla d’asfalto perforata da una metropolitana in stile Paris. Adesso le gru a torre delle imprese sembrano scheletri messi di guardia per sorvegliare cantieri abbandonati e posti di lavoro persi.

Lavori persi che aumentano a ritmo costante, diventano moltitudine, ma restano piccoli drammi individuali, iniziati nella stanza di un piccolo ufficio e tenuti, per vergogna, come una colpa, tra le mura domestiche, vissuti in solitudine tra l’indifferenza generale.

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