Il film Et in terra pax produttivamente nasce in maniera speciale e per certi versi unica. E’ infatti la prima volta che gran parte di una classe del primo anno del corso di produzione del Centro Sperimentale di Cinematografia costituisce, nella sua quasi totalità, una società e produce al di fuori della normale attività didattica un lungometraggio. Io ho la fortuna di essere il docente di questa classe e quindi ho trovato naturale e ancor più necessario di altre volte, nel continuare il mio lavoro di ricerca di talenti da offrire al cinema italiano, coprodurre il film.

Vorrei comunque cogliere l’occasione per ringraziare la commissione ministeriale che ha negato il finanziamento a questo film. Vorrei anche ringraziare Raicinema perché, pur apprezzando la sceneggiatura e il film realizzato, ha preferito non accompagnarci in questa avventura. E infine vorrei ringraziare i distributori amici, sia quelli che non hanno neanche voluto vedere il film, sia quelli che lo hanno visto, rimanendone positivamente colpiti, ma che hanno preferito non rispondere più alle mie telefonate. Il mio ringraziamento, credetemi, è sincero, perché voi non immaginate quanto sia gratificante, quanto mi riempia di orgoglio e quanto mi spinga ad andare avanti, dopo ventisette anni di attività, dopo oltre cinquanta lungometraggi prodotti, dopo la scoperta di almeno una dozzina di nuovi registi, oggi riconosciuti come certezze nel panorama del cinema italiano, ritrovarmi ancora una volta solo a dimostrare che un altro cinema è possibile, anche in questo paese. E l’orgoglio è più forte del rammarico di essere consapevole che basterebbe un piccolissimo sforzo da parte di chi gestisce o frequenta il potere cinematografico per rendere questo cinema un po’ più forte”.

Queste più o meno sono state le parole che ho pronunciato una ventina di giorni a Venezia, dopo la proiezione del film Et in terra pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini. Sono state riprese da molti quotidiani e siti di cinema e non, ragione per la quale molti le hanno già lette, pochi in maniera completa. Poi il caso ha voluto che alcuni giorni fa il Centro Sperimentale di Cinematografia festeggiasse il settantacinquesimo anniversario. Io ero tra gli invitati, nella categoria ex allievi affermati. Ma sono anche un insegnante, come ho ricordato nel discorso di Venezia, e sono stato, nel tempo, consigliere di amministrazione in rappresentanza degli allievi e produttore esecutivo per la produzione dei saggi di diploma, tanto da poter dire che, fatta eccezione per i cinque anni delle gestioni Bini e Caldiron-Libertini, è dal 1983 che frequento il Centro Sperimentale, a cui devo tutto quello che ho fatto nel cinema e a cui sono legato da un grande amore.

Ma io alla festa dei settantacinque anni non sono andato. Forse perché gli allievi, anche quelli che hanno fatto con me Et in terra pax, non erano stati invitati. Forse perché a Venezia alla proiezione del film concepito in quel posto, non c’era un rappresentante ufficiale del Centro Sperimentale che fosse lì anche solo per curiosità. Forse perché non avrei molto amato sentirmi indicare da Bondi la via del mecenatismo quale salvezza del cinema italiano. Forse perché Napolitano mi piaceva di più quando era comunista. Forse perché mi sarebbe piaciuto incontrare i miei amici che lavorano lì, con contratti a tempo più o meno indeterminato, ma anche loro chissà perché non erano stati invitati. Forse perché in più di due è una festa e io alle feste, se posso, non vado. Forse perché, come ho detto a Venezia, un altro cinema è possibile, può anche nascere in quel posto, ma quando in quel posto non ci sono le persone che c’erano quel giorno. E quando in quel posto, al posto delle persone che c’erano, ci saranno molti ma molti più della trentina di allievi che sono rimasti fuori a manifestare contro il potere che entrava. Perché in trenta si è pochi. In trenta un altro cinema rimane possibile, ma risulta molto difficile. Praticamente invisibile.

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