E’ una tentazione ricorrente per la politica: proteggere i top manager dalle conseguenze penali delle loro azioni. L’ultimo regalo era nella manovra finanziaria approvata in estate. L’Ansa lo riassumeva così: “Le sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato”. Che in concreto significava che i manager coinvolti nel crac Parmalat (che non è mai tecnicamente fallita) possono stare tranquilli, primo beneficiario potenziale il presidente delle Assicurazioni Generali Cesare Geronzi, all’epoca dei fatti presidente di Capitalia.

Ma non basta. Da mesi, sotterranea, c’è un’azione di lobbying per modificare anche la legge 231 del 2001, quella sulla responsabilità amministrativa dei vertici aziendali. Se vengono commessi certi reati dai dipendenti di una società (e nell’interesse della società), si possono sanzionare i vertici anche nella fase delle indagini, come si è visto nel traumatico commissariamento di Fastweb nell’ambito dello scandalo per le truffe sull’Iva (la vicenda che ha portato alle dimissioni del senatore Nicola Di Girolamo).

Proprio pensando alle conseguenze di quella decapitazione dei vertici aziendali di Fastweb (con le dimissioni dell’ad Stefano Parisi) a cui è seguita l’uscita dalla Borsa a un’offerta pubblica d’acquisto da parte dell’azionista Swisscom, il deputato di Futuro e libertà Benedetto Della Vedova ha presentato il 19 luglio una proposta di legge per modificare la legge 231. Scopo principale: limitare i casi in cui è possibile il commissariamento e “spostamento dell’onere della prova di dimostrare l’inefficienza del modello [organizzativo] a carico della pubblica accusa anche quando il reato è commesso da un soggetto apicale”.

In parallelo, però, si muove anche un altro disegno di legge che il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha presentato alla Camera di commercio di Milano lunedì. Questa proposta parte dal centro studi Arel (segretario generale Enrico Letta), che l’ha illustrata l’8 luglio in un convegno organizzato assieme alla Price Waterhouse Coopers. E la stessa società di revisione sponsorizzava anche l’iniziativa di Alfano. Nel disegno di legge, infatti, si prevede un ruolo per i “certificatori” della governance aziendale. In pratica, il ministero della Giustizia compila un elenco di soggetti che devono giudicare se l’organizzazione interna di una società è tale da assicurare una corretta gestione. In caso di approvazione, non si potranno applicare le sanzioni interdittive in via cautelare. Cioè i top manager dovrebbero poter dormire sonno tranquilli fino alla sentenza, senza temere commissariamento o altro a meno che i magistrati – a carico dei quali è spostato l’onere della prova – non riescano a dimostrare “sopravvenute significative violazioni delle prescrizioni che abbiano reso manifesta la lacuna organizzativa causa del reato per cui si procede”.

In Europa, da anni, si va nella direzione opposta. C’è una convenzione del 1999 sulla lotta alla corruzione che non è mai stata ratificata dall’Italia anche perché è così severa con i top manager da confliggere con il principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è individuale.

Ma la Confindustria di Emma Marcegaglia da tempo spinge per un allentamento della 231, così come i piccoli imprenditori che, soprattutto in tempo di crisi, preferiscono avere le mani un po’ più libere senza il timore di conseguenze future.

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